Oggi, all’annuncio di un nuovo remake, tutti storcono un po’ il naso. Questo perché ormai da decenni il cinema sembra essere invaso da una quantità sempre maggiore di pellicole che fanno della riproposizione il loro marchio distintivo, spesso concretizzandosi in operazioni distruttive nei confronti di film storici riproposti per mero scopo monetario. In alcuni casi capita però che il remake venga fatto anche con un altro scopo: quando infatti dietro all’operazione si presenta un nome con una certa fama, il tutto sembra prendere una piega differente. Il Cape Fear di Martin Scorsese, La Cosa di John Carpenter, Heat di Michael Mann, La guerra dei mondi e West Side Story di Steven Spielberg, il King Kong di Peter Jackson, il Suspiria di Luca Guadagnino: la lista è sterminata e, seppur non sempre si possa parlare di pellicole capaci di surclassare l’originale, è facile affermare come gran parte di queste operazioni si siano dimostrate convincenti in quanto capaci di mostrare una forte autorialità nella loro realizzazione.
In egual modo ciò accadde con Nosferatu: dopo la monumentale pellicola del 1922 diretta da Friedrich Wilhelm Murnau, il mito del vampiro si sparse come a macchia d’olio nel mondo del cinema sotto le sembianze del più umano (fin dove possibile, ovviamente) Dracula passando da Tod Browning a Terence Fisher fino a tutti gli altri registi che si imbarcarono nell’impresa; almeno fino al 1979, anno in cui arrivò in sala Nosferatu: Il principe della notte, attraverso cui il regista tedesco Werner Herzog riscrisse il mito del Conte proprio riprendendo quanto fatto più di cinquant’anni prima dal suo connazionale. L’espressionismo e la costruzione artistica delle inquadrature lascia spazio in Herzog a una narrazione tra il dark fantasy e il malinconico, tra il sogno e la veglia. Una riscrittura completa del Conte, dei personaggi umani, dei luoghi in cui le vicende si svolgono e il modo in cui queste si srotolano, tutti elementi che portano il Nosferatu di Herzog ad essere una pellicola completamente diversa da quanto visto in precedenza.
Sorprende poco, quindi, che all’annuncio quasi dieci anni fa (!) da parte di Robert Eggers di voler adattare a sua volta questa storia, gli animi fossero visibilmente turbati. Cos’altro c’era da raccontare senza snaturare eccessivamente il materiale d’origine? Il rischio di fallimento era alto, ma negli anni Eggers si è dimostrato un regista capace, portando così sempre più curiosità nei confronti di questo suo adattamento.
Sangue chiama sangue
Poche parole spendiamo per raccontare una storia che ormai conoscono tutti: nella Germania del 1800, Thomas Hutter (Nicholas Hoult) ha appena sposata la giovane e bellissima Ellen (Lily-Rose Depp) e, per poter pagare i propri debiti e garantire una vita dignitosa alla moglie, accetta l’incarico di viaggiare fino alla lontana Transilvania per portare a termine la vendita di una vecchia tenuta al misterioso Conte Orlok (Bill Skarsgård). Quest’ultimo, ottenuto ciò che cercava, si reca quindi a Wisborg per poter possedere finalmente Ellen, con la quale sembra avere un misterioso legame, ora in preda alle convulsioni e al sonnambulismo, tanto che i coniugi Harding (Aaron Taylor-Johnson e Emma Corrin) si vedono costretti a cercare l’aiuto prima del Dottor Sievers (Ralph Ineson) e successivamente dell’eccentrico studioso dell’occulto Von Franz (Willem Dafoe).
Fin dai primissimi minuti del film si presenta però una novità: il tutto si apre infatti con una sequenza che vede protagonista Ellen intenta a pregare supplicando di trovare rimedio alla propria solitudine, entrando però così in contatto con l’inquietante spirito di Nosferatu. Proprio qui risiede uno dei grandi cambiamenti di questo nuovo adattamento: dove in passato il Conte veniva a conoscenza di Ellen solo dopo l’incontro al castello con Thomas, cercandola quindi, in Murnau, per renderla la sua nuova vittima e, in Herzog, per cercare di essere parte dell’amore tra lei e Thomas/Jonathan, qui il rapporto tra i due precede le vicende del film, divenendo poi centrale nello spiegare le motivazioni che smuovono il Conte. È una rilettura estremamente moderna e tristemente attuale quella di Eggers, che sembra interessato a raccontare, attraverso il rapporto tra il Conte ed Ellen, le relazioni tossiche moderne, nelle quali uno dei due coniugi non riesce a lasciar andare l’altro, riscattandone la completa possessione inizialmente con atti più subdoli e successivamente sempre più violenti e dannosi.
In relazione a questo, Eggers introduce il tema della possessione, qui da intendere non solo con valore simbolico ma letterale: se già nell’originale la giovane sembra subire l’influenza del Conte attraverso incubi ed episodi di sonnambulismo, qui Eggers calca pesantemente la mano inserendo intere sequenze molto vicine ai film di cui L’esorcista fu capostipite, tra occhi ribaltati, schiene inarcate e turpiloqui. E se da un lato questo può far storcere il naso a chi si aspettava una narrazione più sottile – magari vicina ad un The VVitch per esempio – dall’altro risulta innegabile come la maestria del regista riesca a rendere anche questa novità come un’aggiunta capace di non stonare.
Una sinfonia dell’orrore
Ciò che risulta palese nell’adattamento di Eggers è senza dubbio la volontà di mettere in scena un vero e proprio film dell’orrore, costruendo così forse il suo film più accessibile: nonostante la durata comunque sostenuta, le vicende si compongono infatti di numerose sequenze squisitamente orrorifiche con jumpscare ben piazzati, giochi di luci e ombre e vedo-non-vedo capaci di costruire una forte tensione e, come ciliegina sulla torta, un utilizzo del sangue e del gore decisamente intelligente. Tutto questo orrore non sarebbe senz’altro possibile senza l’impeccabile cura estetica e tecnica portata avanti in maniera incredibile per tutto il film: Eggers e Jarin Blaschke (ormai storico collaboratore del regista) si destreggiano infatti tra movimenti di macchina e primi e primissimi piani senza mai mostrare il fianco, costruendo ogni inquadratura con una cura e uno studio maniacale riuscendo nell’impresa, tutt’altro che semplice, di costruire momenti capaci di reggere il confronto con entrambe le precedenti iterazioni.
A coronare il tutto ci pensano poi la colonna sonora di Robin Carolan, composta di melodie sia struggenti che estremamente inquietanti, un reparto costumi e scenografie incredibili, che fondono l’estetica gotica e la minuziosa ricerca dell’accuratezza storica – tanto che le sequenze nel Castello del Conte sono state interamente girate in un vero castello nel quale venne rinchiuso proprio Vlad Tepes -, e un cast davvero azzeccatissimo: su tutti spicca senza dubbio Lily-Rose Depp, magnifica nel ruolo di Ellen e capace – forse anche più dell’originale scelta Anya Taylor-Joy – di donare al personaggio una presenza scenica unica mista a una recitazione sì barocca ma estremamente calzante con le atmosfere ricercate; seguono a ruota un Nicholas Hoult capace di mostrare appieno tutto il terrore e la paura dovute all’incontro con il Conte, un magnifico Willem Dafoe, quasi comic relief, che assieme a Ralph Ineson compone un duo dalla grande alchimia a schermo e che permette un grande approfondimento sul versante dell’occulto; chiudono il quadro un’ottima, seppur limitata a poche sequenze, Emma Corrin e un Aaron Taylor-Johnson mai così convincente.
Piccolo spoiler minore sul design del Conte: dato l’alone di segretezza attorno al design del Conte all’interno dei trailer, qualora vogliate arrivare completamente vergini al film, vi consigliamo di saltare direttamente alle conclusioni
Unica nota dolente può essere trovata nel Conte, poco presente proprio per una scelta narrativa che avvicina le vicende a quelle di un horror di stampo più classico, ma che quando figura a schermo si ritrova caratterizzato da un design dalla scelta “bizzarra”: la scelta di dotare Orlok di baffi e capelli così da avvicinarlo maggiormente al vero Vlad non sarebbe di per sé una scelta sbagliata o criticabile, ma inserita all’interno di un contesto dall’intento così chiaramente orrorifico presenta l’inevitabile rischio di ridurre la forza scenica del personaggio, già estremamente iconico – e forse anche maggiormente inquietante – con la sua testa pelata, le orecchie a punta e la pelle biancastra. Anche a causa di un trucco estremamente presente, la figura di Bill Skarsgård sembra quasi scomparire con l’unica eccezione dell’ottima gestione del timbro vocale, purtroppo assente nella versione doppiata.
Conclusioni
Diciamolo subito: il Nosferatu di Eggers è un film che ha senza dubbio senso di esistere. Non solo per l’amore fanciullesco di Eggers verso l’originale che si percepisce in ogni inquadratura, ma soprattutto perché, riproponendo un racconto estremamente attinente all’originale, riesce a dimostrare una propria valenza e una propria forza. La decisione di puntare così fortemente sull’horror, la cura maniacale a livello estetico, l’ottima direzione del cast unita a una colonna sonora incredibile, alle incredibili scenografie gotiche e ai costumi dal forte richiamo storico: tutti elementi che cementificano, senza alcun dubbio, questo film tra i migliori horror degli ultimi anni e che permettono a questo remake di non sfigurare assolutamente nemmeno quando accostato ai grandi capolavori di Murnau ed Herzog. Lunga vita a Nosferatu!

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