“Ti getterò addosso una lordura abominevole.
Ti renderò vile e ti renderò uno spettacolo.”
Jordan Peele è finalmente tornato sul grande schermo. Il poliedrico comico, attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense che ha esordito dietro alla macchina da presa appena cinque anni fa con l’acclamato Scappa – Get Out (candidato a quattro statuette dall’Academy e premiato per la Migliore sceneggiatura originale), riprende anche la collaborazione con l’altrettanto apprezzato Daniel Kaluuya, già protagonista di Get Out e ora affiancato dalla giovane Keke Palmer (Le ragazze di Wall Street – Business Is Business, Scream Queens). Con Peele, maestro contemporaneo nel saper fondere il genere con mire più autoriali che ben si inseriscono nel contesto sociale odierno, tornano anche le paranoie della contemporaneità che già avevano caratterizzato i suoi due precedenti lavori: se nel film d’esordio assestava una dura sferzata alle colpe dell’uomo bianco in un titolo che era già un monito per il protagonista (“scappa!”) e nel 2019 con l’horror Noi rielaborava la figura del “non morto” romeriano per parlare prettamente di America in uno scontro frontale tra vittime e carnefici – il titolo originale “Us” era facilmente riconducibile all’acronimo di “United States” -, in Nope oltre ai generi si mescolano e si confondono continuamente anche i ruoli di preda e predatore, pur continuando a parlare di minoranze grazie allo sguardo di Peele – termine non casuale – al concetto contemporaneo di spettacolo, attraverso un monito che questa volta è indirizzato direttamente a noi spettatori: “fate attenzione a cosa guardate!”.
Il film parla infatti dei due fratelli Haywood, Otis Jr. detto “OJ” (Daniel Kaluuya) e Emerald detta “Em” (Keke Palmer) che in una zona rurale della California gestiscono un ranch di famiglia ereditato dal padre, morto colpito da un nichelino caduto misteriosamente dal cielo. Mentre Oj tenta di portare avanti l’attività paterna, Em cerca fama nell’industria hollywoodiana e pubblicizza l’azienda sostenendo di essere discendente del fantino senza nome protagonista dell’esperimento fotografico The Horse in Motion di Eadweard Muybridge, una delle primordiali forme di ripresa cinematografica. Assieme a frequenti blackout, scompaiono improvvisamente alcuni cavalli e quelli restanti sembrano in preda a un’isteria collettiva, costringendo Oj a venderne alcuni a Ricky “Jupe” Park (Steven Yeun), proprietario di un parco a tema western situato affianco alla tenuta. Em si affretta a installare una serie di telecamere di sorveglianza perché è convinta ci sia qualcosa di extraterrestre in quegli inspiegabili avvenimenti, ma qualcosa di ancora più imperscrutabile si annida in una strana nuvola sospesa in cielo nel bel mezzo della gola californiana, intenta a mietere vittime ogni qualvolta si tenti di riprendere e catturare le prove della sua esistenza…
Daniel Kaluuya è “OJ”
LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO
La citazione biblica di inizio articolo apre anche il film di Peele e si noti come l’ultima parola sia proprio “spettacolo”: lo stesso regista in un’intervista con Empire ha affermato che mentre scriveva la sceneggiatura ha “iniziato a scavare nella natura dello spettacolo, nella nostra dipendenza dallo spettacolo e nella natura insidiosa dell’attenzione“. I personaggi di Nope altro non sono che simulacro di noi spettatori in un film che è, per l’appunto, un avvertimento e un appello al pubblico: “Cosa guardate? Dove riponete l’attenzione? Quale tipo di spettacolo cercate? Siete certi di riuscire a resistere alla sua dipendenza?”.
“Appena la gente lo scoprirà farà come sempre, ovvero lo rivendicherà come suo.“
In Nope tutti i personaggi guardano qualcosa, ma la loro sopravvivenza dipende dalle modalità con cui rielaborano l’oggetto del loro sguardo: nella contemporanea società dell’immagine dove le fotocamere sono diventate appendice del corpo e ogni schermo elettronico richiama dopamina, bisogna che l’uomo cominci a ragionare sui confini etici dello sguardo e sui limiti da autoimporsi; la creatura aliena uccide solo chi si ferma a guardarla ma in particolar modo coloro che non hanno capito come (non) guardarla: il direttore della fotografia Antlers Holst (Michael Wincott) parte con buone intenzioni ma si lascia assuefare dalla narcisistica ricerca della ripresa perfetta, il reporter è meramente alla caccia dello scoop autoreferenziale, mentre Jupe tenta addirittura di portare avanti un business per famiglie fondato sulla stessa spettacolarizzazione dell’alieno, probabilmente come rielaborazione di un tragico trauma infantile anch’esso accaduto per via di uno show televisivo – persino ricostruito come spettacolo al Saturday Night Live.
“Jupe” (Steven Yeun) mentre attira attira la creatura
UNA QUESTIONE DI SGUARDI
Ciò che è indubbio è che lo sguardo di Nope alla Settima Arte sia insolito per i tempi che corrono: si viaggia a cavallo fra la tradizione sci-fi anni ‘50, l’horror spielberghiano de Lo Squalo e influenze western. Che non ci si trovi di fronte a ciò che il cinema ci ha abituato a vedere è chiaro sin dai cambiamenti linguistici: non si parla più di UFO (Unidentified Flying Object) bensì di UAP (Unidentified Aerial Phenomena) ma anche di “osservatori”, come esplicitato dai protagonisti del film. Nel suo calderone audiovisivo non è un caso che la maggiore influenza sia quella del cinema western, il genere che ha assimilato e narrativizzato maggiormente la “gaze theory” del cinema (“teoria dello sguardo”, appunto), quello sguardo che rendeva i personaggi oggetti erotici per lo spettatore – per via della sua continua oscillazione fra immagine come fonte di identificazione e assieme contemplazione – e su cui si strutturava il dramma: non essendo ammesso lo sguardo dell’uomo su un corpo maschile – erano inaccettabili gli accenni all’omosessualità nel filone del genere -, quest’incrocio di sguardi era spesso represso con la morte nell’ultimo duello. Voyeurismo e feticismo, ma sempre dell’uomo bianco: il western – di Leone come di Anthony Mann – è per tradizione un genere esclusivamente “bianco”, raramente accessibile agli afroamericani e anzi altare iconografico delle più controverse e reazionarie figure americane (John Wayne), ma non nel western di Nope. Ed è proprio quì che si intreccia il portfolio cinematografico di Peele con le sue già conosciute esigenze politiche e sociali ancora urgenti: il regista decide di fare proprie le modulazioni narrative western (oltre a quelle sci-fi e horror) per dare voce a chi è sempre stato messo a margine o a cui il genere è da sempre recluso. E’ quasi una rivendicazione, quella di Peele: i fratelli Haywood discendono illustremente dal fantino di colore senza nome dell’esperimento fotografico di Muybridge (nel primo fotogramma riconducibile al western c’è un afroamericano!), la follia dello scimpanzè che nell’incipit guarda – non a caso – in camera noi spettatori, è lacerante metafora della disumanizzazione che i bianchi hanno a lungo perpetrato nei confronti delle minoranze (ma anche da parte di Hollywood: si pensi alle numerose distorsioni storiche operate dall’industria di Los Angeles, come nel famoso Berretti Verdi del già citato John Wayne, uno dei casi più eclatanti di cinema scelleratamente guerrafondaio e reazionario), e infatti risparmia il giovane di origine asiatica Jupe, riconoscendo in lui un compagno di emarginazione.
Keke Palmer è “Em”
Nella sua metabolizzazione e rielaborazione del western che segue la scia dei recenti First Cow e Il Potere del Cane, Nope è quindi un monito all’etica dello sguardo e un grande discorso sulla società dello spettacolo. Ma perché ci sia spettacolo c’è bisogno di pubblico: voi che tipo di spettacolo cercate? Tenete bene a mente questa domanda perché Peele ha sfornato l’anti-blockbuster per eccellenza, l’anti-Spiderman: No Way Home: se siete in cerca di un prodotto confezionato ad hoc per soddisfare i gusti del pubblico e confermare ogni attesa allora meglio riporre altrove l’attenzione. Nope è un film che esige e pretende, ma che in compenso intrattiene, arricchisce e rinvigorisce la mente permettendo di capire qualcosa in più sul mondo che ci circonda ma anche sul passato.
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