Secondo lungometraggio di finzione per Manfredi Lucibello dopo il noir Tutte le mie notti, Non riattaccare prende le mosse da un romanzo di Alessandra Montrucchio e la sua premessa intrigante, affidando la stragrande maggioranza del tempo del racconto a una sola interprete e al voice over di un personaggio fuori campo. Laddove paragone che più spesso è stato citato è con Locke di Steven Knight per le ovvie similitudini – la corsa in automobile, notturna e solitaria, del protagonista unico Tom Hardy -, il noir sentimentale di Manfredi Lucibello prevede un cast di personaggi in scena più ampio ed è meno prigioniero dell’abitacolo. Appare quindi più libero dall’impostazione teatrale cui si potrebbe comunque ricondurre.

La lunga notte della pandemia

Opera forse meno ardua e rigida nel seguire la gimmick, il film di Lucibello, a differenza del dramma di Knight, imbocca ben presto la strada del thriller psicologico. Durante una delle lunghe e anonime notti del primo lockdown, Irene riceve una chiamata nel cuore della notte dall’ex Pietro, che lascia presagire un gesto estremo e disperato. Irene parte per un’odissea a rotta di collo, fin da subito funestata da ostacoli tecnici, umani e sentimentali, e segnata da una sola regola per impedire l’irreparabile: che i due, entrambi smarriti in una propria solitudine estrema e inconfessabile, non smettano di parlare al telefono. Ma la batteria si consuma, la benzina dell’auto pure, e Pietro appare instabile e Irene è sempre più sfinita.

Con l’unico, fragile legame che mantiene il contatto tra i due mentre Irene percorre le strade deserte di una città (di un mondo?) spettrale, i chilometri tra i due che si accorciano sempre più: la corsa solitaria nelle strade deserte della protagonista Irene è una gara contro il tempo e un viaggio nell’oscurità dei propri traumi.

L’effimero che ci unisce

Facile ma non del tutto errato etichettarlo come cinema “da pandemia”, cosa che può far storcere il naso a chi ci vede un facile tentativo di inserirsi nel contemporaneo. Ma il lockdown è solo il contesto in cui si muove un lento e paziente lavoro di svelamento di rapporti umani ridotti a brandelli. Non solo l’incertezza dei rapporti umani in tempo di pandemia costretti a un’assenza imprevista e traumatica: la sceneggiatura di Lucibello e di Jacopo del Giudice vorrebbe mettere in evidenza più in generale la fragilità sostanziale che ci lega come umani, prigionieri della nostra storia personale.

Tensione e sviluppo psicologico dei personaggi vanno di pari passo. Sul piano del thriller la scommessa di Lucibello regge: sfrutta appieno il contesto della pandemia per costruire una corsa contro il tempo perfettamente realistica che non scade quasi mai nella soluzione facile.

Nella sua disamina di rapporti sentimentali disastrati, disvela a dovere informazioni sui personaggi senza calcare la mano in over explaining. Ciò che manca, è una solida base di partenza, intesa come personalità forti in grado di reggere un film così imperniato sul dialogo, anche con una interprete come Barbara Ronchi, l’attrice che regge efficacemente da sola quasi un intero lungometraggio sulle proprie spalle. E non aiuta che il viaggio nella notte della pandemia finisca con il rifiutare ogni possibile ambiguità in favore di una conclusione fin troppo perentoria: le domande che pone sono decisamente più interessanti delle risposte.

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Valentino Feltrin,
Redattore.