Durante la cosiddetta grande recessione seguita alla crisi economica del 2008 centinaia di migliaia di persone negli Stati Uniti hanno perso la casa e, dovendo trovare un modo per sopravvivere, molte di loro hanno dato vita a nuovi fenomeni di nomadismo. Non fa eccezione la sessantenne Fern che, rimasta vedova e disoccupata, si trasferisce in un minivan e – barcamenandosi tra un incarico stagionale ad Amazon, la gestione di un campeggio e il lavoro in un fast food – abbandona la vita stanziale e fa la conoscenza delle tante comunità di nuovi nomadi che popolano gli Stati Uniti occidentali.
La regista Chloé Zhao
Dopo Songs My Brothers Taught Me (2015) e The Rider – Il sogno di un cowboy (2017), Chloé Zhao continua la sua esplorazione dell’anima statunitense e si immerge ancora una volta nella provincia americana, per coglierne i nuovi miti. La forza del film della giovane regista cinese, infatti, sta proprio in una trasfigurazione del paesaggio cinematografico e del suo significato iconico. Il “vecchio West” di John Ford – la terra promessa verso la quale il progresso avanza a suon di rotaie posate nel deserto, la manifestazione assoluta del sogno americano (la civilizzazione e la riconduzione all’ordine della wilderness, la terra selvaggia) – è qui svuotato degli attributi che decenni di cinema gli hanno affibbiato e azzerato nel suo portato simbolico. Il West in Nomadland rappresenta il fallimento definitivo di quel sogno, venuto meno con l’avvento di un capitalismo esasperato che ha determinato una sorta di riavvolgimento storico e un ritorno a pratiche precedentemente abbandonate. Fern, interpretata da un’inscalfibile Frances McDormand, si aggira dunque tra le macerie dell’American dream, ma lei e gli altri nomadi, mossi da una visione solidale della vita, resuscitano una concezione pionieristica che, come affermato dalla sorella della protagonista in una scena del film, è “parte della tradizione americana”: come i pionieri dovettero lottare per la civilizzazione, così Fern e i suoi devono tentare un ritorno alla natura, alla condivisione, alle cene notturne attorno al falò. È così che l’America è nata ed è l’unico modo in cui può sopravvivere e riconquistare uno scopo che la ripaghi dei tanti errori commessi. Il nomadismo moderno rappresenta, per la Zhao, un ritorno ai valori e all’anima statunitensi e una rifondazione della mitologia nordamericana.
La regista racconta tutto ciò con uno stile in bilico tra lirismo malickiano e documentario: decide di utilizzare praticamente solo attori non professionisti (a parte la McDormand e David Strathairn) e veri membri delle comunità nomadi, fa uso parco delle belle musiche di Ludovico Einaudi e punteggia il film di piccole storie che hanno il sapore dell’autenticità (particolarmente forte quella dell’anziana Swankie).
Fern, eroina insicura e tormentata dai ricordi del defunto marito Bo, è alla perenne ricerca di un senso per la propria esistenza e di una riconciliazione con i luoghi del proprio dolore. Nel West trova da un lato la libertà assoluta di farsi trasportare dal vento di fronte all’oceano in tempesta e di lasciarsi alle spalle la sofferenza della perdita (un giorno ci rincontreremo tutti: questo il senso della ormai celebre tag line “See you down the road.”) e dall’altro la costrizione di doversi comunque adeguare a un sistema economico (la donna lavora ad Amazon per necessità) non ancora scardinato che non permette a nessuno di sfuggirvi. Il personaggio della McDormand trova dunque il senso vero del proprio percorso di nomade nel proprio furgoncino: quasi estensione del proprio corpo, il Vanguard – avanguardia, progresso: così si chiama il minivan di Fern – è il cavallo della contemporaneità, il destriero dei nuovi pionieri in cerca di una nuova America e di un nuovo sogno.
Il film ha vinto 3 premi Oscar (miglior film, regia e attrice protagonista) e il Leone d’Oro alla 77ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Il discorso di accettazione del Premio Oscar alla Migliore Regia di Chloé Zhao
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