“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”
Scriveva così Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”, e probabilmente non esiste concetto migliore per valutare questo No Time to Die, venticinquesimo capitolo della saga storicamente più importante del cinema di intrattenimento, così come non vi è maniera più calzante per inquadrare questa pellicola all’interno della pentalogia targata Daniel Craig.
Lo 007 di Fukunaga (primo regista americano a dirigere un Bond-Movie), infatti, rompe alcuni dei canoni portanti nell’iconografia filmica della spia più famosa del grande schermo, riuscendo a creare un prodotto atipico, ma che nella sua diversità si rivela essere una degna e soddisfacente conclusione del percorso iniziato nel 2006 con Casino Royale.
Il primo punto di distacco tra questo film e gli altri dell’era Craig è, senza dubbio, l’incipit. In tutti i quattro capitoli precedenti, infatti, lo spettatore veniva catapultato nel bel mezzo di una missione sconosciuta, con sequenze più o meno action a seconda della pellicola, ma pur sempre mettendo in scena un Bond in servizio sul campo. Fukunaga decide, al contrario, di abbandonare l’inizio in medias res e di aprire questo No Time to Die con un lungo flashback dal sapore vagamente horrorifico, lento nel ritmo e glaciale nella fotografia e nella regia, regalando fin da subito una delle migliori sequenze del film.
Nonostante ciò, il classico inseguimento bondiano d’apertura arriva (anche abbastanza inaspettatamente) e funziona molto bene, complice una Matera che non sfigura in confronto all’Istanbul di Skyfall e alla Città del Messico di Spectre, ma anche grazie a un importante peso tematico-narrativo che questa sequenza porta con sé.
Un altro pilastro che viene abbattuto da Fukunaga e dagli sceneggiatori è la figura della Bond-Girl. Se dal trailer e dalle immagini promozioni sembrava chiaro che questo ruolo sarebbe stato ricoperto da Ana de Armas, il film prende poi sorprendentemente una piega diversa, relegando il personaggio della giovane attrice cubana a una manciata di minuti di screentime, e segnando, di fatto, la totale assenza di una Bond-Girl degna di questo nome. Nonostante questa scelta sia narrativamente e tematicamente giustificata, resta l’amaro in bocca per un personaggio che aveva il carisma e il physique du role giusto per funzionare molto bene all’interno della pellicola, soprattutto grazie alla sua interprete, bravissima a bucare lo schermo in quelle poche scene in cui è presente, in un ruolo non semplice, in equilibrio tra il sensuale, l’action e il comico.
A fare da contraltare femminile alla più classica figura della donna bondiana, vi è la scelta di inserire una “nuova” 007, ovvero un’agente che, dopo il ritiro a vita privata di James, prende il suo posto nei servizi segreti, ricevendo anche lo stesso numero del suo predecessore. Questo personaggio, purtroppo, non si cala mai perfettamente nella parte, complice anche una scrittura non sempre eccelsa, rivelando un arco narrativo telefonato e a tratti forzato. Leggendo questa decisione in un’ottica di reinterpretazione moderna della figura femminile, sarebbe stato forse più opportuno dare maggiore spessore alla classica Bond-Girl (come fu per la Vesper Lynd di Eva Green), evitando di creare un personaggio decisamente troppo action, che spesso finisce per pestare i piedi al vero 007 nelle scene più dinamiche.
Per quanto riguarda la figura del protagonista in sé, Fukunaga continua nel solco introspettivo tracciato prima da Campbell con Casino Royale e poi soprattutto da Sam Mendes con Skyfall. In questo senso si può affermare tranquillamente che l’intero film ruoti intorno all’emotività e al turbamento interiore di Bond, qui come mai prima alle prese con fantasmi e volti che tornano dal passato, tradimenti, redenzioni e responsabilità, forse, inedite nella storia del personaggio.
Parlando dell’ovvio, la prova attoriale di Craig è estremamente convincente nel dipingere uno 007 vulnerabile, umano, sofferente e tormentato, regalando quella che a mente fredda potrebbe diventare l’interpretazione più matura vista in un Bond-Movie e che, al netto dei quattro film precedenti, apre nuovamente (e forse chiude) la questione su chi sia effettivamente il miglior James Bond visto sul grande schermo.
Nonostante, come già ampiamente discusso, alcuni grandi canoni vengano abbattuti, altri rimangono ben saldi e anzi diventano punti di forza. Bellissime e funzionali le location internazionali, su tutte la già citata Matera e la Norvegia, così come funzionale e convincente è il classico British Humor bondiano, che qui spezza in modo sapiente il tono generalmente serio della pellicola, senza risultare mai fuori posto.
Ultimo, ma non meno importante, è l’utilizzo di gadget tecnologici, elemento tipico della saga, che funziona molto bene in questo film e che ha anche la funzione di dividere visivamente il “vecchio” 007 dal nuovo mondo contemporaneo, così distante dall’immaginario da Guerra Fredda legato al personaggio (un esempio molto interessante è l’Aston Martin modernissima guidata dalla nuova 007, confrontata con la leggendaria Aston Martin guidata da Craig).
Analizzando l’aspetto tecnico della pellicola, Fukunaga applica una regia pulita ed elegante quando necessario, con movimenti di macchina intelligenti ed ispirati, concedendosi qualche guizzo molto interessante (la prima scena di irruzione dei soldati Spectre dopo i titoli di testa è una vera chicca), ma riuscendo allo stesso tempo a dirigere scene d’azione in modo chiaro e preciso, utilizzando spesso piani sequenza perfetti, che non risultano mai mero sfoggio virtuosistico, ma restano sempre funzionali alla narrazione.
Menzione d’onore per un reparto fotografico sugli scudi, forse il migliore dell’era Craig e per un comparto tecnico comunque di ottimo livello, su tutti montaggio e colonna sonora davvero notevoli.
Il film, infatti, vive di atmosfere molto cupe e molto ben gestite: si passa da combattimenti urbani illuminati al neon a La Havana, fino a sequenze in una nebbiosa foresta norvegese dal gusto quasi alla Jurassic Park, mantenendo costantemente un’attenzione al dettaglio sinceramente sopra la media.
Prima di parlare dei lati negativi che, seppur pochi, sono presenti, va riconosciuto a Fukunaga e agli sceneggiatori di essere riusciti a chiudere tematicamente la pentalogia in maniera ottima, dando ancora più importanza al Bond-Uomo e al carattere introspettivo di questo reboot, concludendo in modo molto convincente tutti gli archi narrativi aperti nei precedenti film e utilizzando personaggi del passato senza risultare mai banale.
Il neo più importante di questo venticinquesimo capitolo della saga resta la gestione del villain.
No Time to Die, purtroppo, inciampa nello stesso punto in cui era inciampato Spectre, facendo forse anche peggio del suo predecessore: il personaggio di Rami Malek (così come fu per Christoph Walz) diventa, infatti, davvero significativo ai fini della trama solo dopo una buona metà del film. Se in Spectre, però, l’ombra di Blofeld si insinuava sulla scena anche (e soprattutto) in sua assenza, in questo film regna un po’ di confusione sull’identificazione del nemico di Bond per tutta la prima parte, con due o tre personaggi a contendersi la poltrona.
Facendo un bilancio, No Time to Die si rivela essere un ottimo film che, forse, non arriva ai livelli altissimi di Skyfall e del quale subirà sicuramente il paragone, ma nonostante questo rimane un’opera molto interessante e visivamente eccellente, una chiusura sensata ed emozionante a una storia gestita con grande maestria nel corso di questi ultimi cinque film dell’era Craig, in attesa di un nuovo inizio, di nuovi Vodka Martini agitati e non mescolati e soprattutto di un nuovo 007, pronto a raccogliere lo scettro che dal 1962 passa di mano in mano, per ricordare al mondo che il nome è Bond, James Bond.
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