Mise-en-scène

Cos’è un autore cinematografico? Anzi, chi è un autore cinematografico? Quali requisiti vanno soddisfatti? I Cahiers inventarono la nozione teorico-lessicale ormai settant’anni fa, ma ancora oggi è un concetto dai contorni nebulosi, sfuggenti, complicati. Ridley Scott non viene certo in nostro aiuto, tutt’altro. Pochi come lui hanno contribuito a mettere ancora più in crisi l’idea di “autore”: un mercenario fuoriclasse che non firma mai le sceneggiature ma che pone cura maniacale alla mise-en-scène (a tal punto che i suoi storyboard hanno un nome preciso: i “Ridleygram”) è considerabile tale? Domanda difficile, ma se rispondessimo categoricamente “no” saremmo scorretti, d’altronde il cinema non è tutto una questione di messa in scena?  Potremmo riassumere dicendo che si è autori se nel corso della propria filmografia si esprime una visione artistica distintiva, preziosa, unica. Ma qual è quindi la messa in scena di Scott? In altre parole, qual è il suo stile? A sua volta una nozione dai confini labili, tutto è stile e niente lo è, Christian Metz sosteneva fosse un “timbro dell’atto discorsivo di uno specifico autore” e quindi uno “scarto rispetto alla norma”, che attraversava il testo filmico pur restando termine di mediazione fra autore e fruitore. Meyer Schapiro aggiunse che lo stile nell’arte di un individuo dovesse consistere anche in “un sistema di forme costanti dotato di una qualità e di un’espressione portatrice di significato”. Bene, come sappiamo Ridley Scott è uno dei più grandi artigiani del cinema contemporaneo e bastano i suoi primi tre film (I Duellanti, Alien e Blade Runner) per riservargli un posto nella storia del cinema. Ma qual è il suo stile? L’uso espressivo dei colori dei tableaux vivants de I Duellanti e la ricreazione di un mondo più reale della Natura stessa (e quindi artificioso)? La maniacalità del world building (che ha ereditato dal suo maestro Lang) che diventa protagonista come con le viscere della Nostromo di Alien? Uno stile che fonda i suoi dogmi sulla tecnica con la centralità della macchina da presa come vale per l’immortale estetica cyberpunk di Blade Runner, capace di imprimere bellezza abbacinante a un mondo organico in decomposizione? La guerra cupa e digitale de Il Gladiatore comunque in grado di trasmetterti tutta l’epica dell’ascesa di un reietto, che diventerà parte dello star system dei panem et circenses per poi essere comunque destinato alla caduta?

Ridley Scott e Joaquin Phoenix sul set di Napoleon

Tutte queste”, risponderei, perché nel cinema di Scott lo scarto rispetto alla norma, il suo unico dogma, in realtà, è sempre stato soltanto uno: la forma prescinde sempre dalle intenzioni delle immagini, forma e contenuto sono inscindibili, perché lui è sempre stato un regista estremamente sincero con il pubblico, senza che l’intellettualizzazione della forma prendesse il sopravvento sulla sostanza. In Napoleon, tuttavia, si cerca la destrutturazione del mito di Napoleone esattamente come tentato nel 2010 con quello di Robin Hood, una fra le prima opere a mostrare scricchiolii nel cinema di Scott, perché il lavoro demistificante eseguito sul mito di Sherwood giocava estremamente facile, senz’alcun sentimento, senza passione, un stanchissimo adattamento che riduceva il mito a una versione machista che la macchina da presa nervosissima non sapeva bene come inquadrare. Scott ha continuato a vedere crescere i budget concessi e Exodus – Dei e re certificava la pigrizia di un grande regista non più in grado (o senza voglia?) di apporre al mondo filmato un filtro personale e riconoscibile, ma tutto ha cominciato a risolversi in un approccio inerte, teso all’omologazione passiva di luoghi, periodi storici, personaggi, sempre ripresi uguali, indistinti, con il progressivo svanimento della presenza della figura umana nella storia e nella Storia, quindi senza meccanismi narrativi e passionali, senza coinvolgimento e senza partecipazione attiva da parte dello spettatore. Un lento declino che ha trovato in The Last Duel un breve (ma bellissimo) sussulto di sopravvivenza.

Napoleone Bonaparte (Joaquin Phoenix) e Giuseppina di Beauharnais (Vanessa Kirby)

Un gioco troppo facile

Sarebbe intellettualmente disonesto focalizzarsi ora esclusivamente sul contenuto di Napoleon (così come sui simpatici battibecchi fra il regista e i paladini dell’accuratezza storica), il nuovo colossal di Scott, di per sé film maledetto, che in tanti hanno portato sul grande schermo e tanti altri hanno tentato, non ultimo Stanley Kubrick con l’ormai famigerato più grande film mai realizzato. L’opera si pone come decostruzione del mito del politico e generale francese coprendo l’intero trentennio della sua vita a partire dalla morte di Maria Antonietta (1793) fino alla sua morte in esilio a Sant’Elena (1821). L’approccio è satirico, con un Napoleone tutto d’un pezzo e risoluto in guerra quanto fragilissimo e insicuro nel rapporto coniugale, dove dispiace che il women empowerment di Giuseppina (Vanessa Kirby) sia una storyline lasciata a morire a sé stessa – non dimentichiamo che Scott è lo stesso di Thelma & Louise e dell’eroina Ripley. Ma come detto in precedenza, in Scott è inutile analizzare solo il contenuto perché nel suo cinema è ontologicamente legato alla forma. Così come non basta rimarcare le ricostruzioni sceniche delle battaglie (Tolone, campagna d’Egitto, Austerlitz, campagna di Russia, il fallimento di Waterloo) impeccabili, con la giusta e calibrata commistione fra computer grafica ed effetti analogici. Non basta, perché dipende sempre come Scott sceglie di inquadrarle, con quale sguardo cinematografico. E purtroppo il problema è lo stesso e identico che il suo cinema si porta dietro da Robin Hood (se non prima), un cinema dallo sguardo perso, anonimo, indeciso, passivo, dove la figura umana è sempre più evanescente e con essa anche i meccanismi emotivi e passionali della narrazione: la forma si è definitivamente scissa dal contenuto.

La battaglia di Austerlitz

Sebbene solo uno spettatore ingenuo e anche un po’ sconsiderato potesse pretendere un approccio rivoluzionario come fu per il “piccolo caporale” di Abel Gance di ormai cent’anni fa, è legittimo sollevare dubbi sul gioco fin troppo facile di Scott, su un (anti)colossal che impiega gli oltre 200 milioni di dollari concessi (com’è ormai prassi) dalla piattaforma streaming per immagini dalle ricostruzioni magniloquenti e dai richiami pittorici (Bonaparte davanti alla Sfinge) ma che si spengono in loro stesse, senza un preciso sguardo cinematografico, né alcuna carica emozionale. Se il cinema filtra la realtà grazie all’occhio del regista allora quello di Scott sembra non aver più interesse per lo spettatore e nemmeno fungere da mediatore, buttandoci addosso sequenze che vomitano il budget con piglio arrogante, giustificando la grettezza delle immagini dietro al preteso decostruzionismo dell’epos napoleonico che però – nella versione mutilata passata in sala – costruisce un giochino più simile a un orpello egoriferito piuttosto che cercare il gusto del racconto cinematografico. Potrei fare mille discorsi sull’ipotetico legame filosofico e concettuale fra il replicante Roy Batty che ha visto cose… e l’importanza dello sguardo in Napoleon, con un Bonaparte semplice testimone della Storia, che tutto vede e tutto osserva inerte così come il suo regista dietro alla camera, probabilmente senza sapere bene come inquadrare lo stesso sguardo di Phoenix. E soprattutto rischiando di lasciare anche lo spettatore con la stessa smorfia impassibile, fredda e anche un po’ sdegnante. Che poi a ben pensarci è la stessa con cui Scott pare rivolgersi a noi. Ma è davvero questo che vogliamo dal cinema? Un rapporto regista-spettatore di sudditanza? Io non ci sto, soprattutto perché il cinema è una questione di stile, ma anche di narrazione. Qui entrambi molto sbiaditi. Proprio come la figura umana nel cinema di Scott da un po’ di tempo a questa parte.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.