Il nuovo documentario targato Film 45, coprodotto dalla Uninterrupted di Lebron James e Maverick Carter, uscito su Netflix lo scorso 16 luglio, ci parla della vita di Naomi Osaka, prima persona asiatica a raggiungere il primo posto nel ranking mondiale di tennis, attualmente al numero 2 del ranking WTA. Strutturato in 3 episodi (Rise, Champion Mentality e New Blueprint) tutti diretti da Garreth Bradley, si sofferma sul biennio 2019-20 dell’atleta, che inizia da campionessa in carica dell’Australian Open. 

Il documentario si prende notevolmente i suoi tempi, accompagnato dalla colonna sonora firmata Devonté Hynes (Blood Orange). La narrazione appare dilatata, piena di silenzi, lontana dal caos e dall’energia continua presente ad esempio nei documentari sportivi creati secondo lo schema All or Nothing, e anche dai toni eroici e agiografici tipici nei ritratti dei singoli campioni. Il documentario cerca dei momenti di pace, così come li cerca Naomi, in fin dei conti solo una ragazza poco più che ventenne, timida e non del tutto a proprio agio davanti a obiettivi e telecamere che, nonostante i suoi atteggiamenti rimessi, cerca anche di essere un’icona di stile, riuscendoci in un modo assolutamente personale.

Attorno a lei vediamo pochissime persone: i genitori, la sorella che lei stessa definisce come “una sua copia che si veste molto meglio” e il rapper Cordae, suo fidanzato. C’è Kobe Bryant, certamente una figura ispirazionale ma in alcuni momenti anche una sorta di fratello maggiore per Naomi. Figura di cui certamente la nostra protagonista sentirà la mancanza negli anni successivi. C’è Colin Kaepernick, detonatore e incarnazione a livello sportivo della lotta per i diritti civili degli afroamericani, colui che per primo si inginocchiò durante l’inno nazionale nel 2016, dando una svolta assolutamente radicale alla sua carriera e alla sua vita. 

Gli eventi seguiti all’omicidio di George Floyd il 25 Marzo 2020 avranno un forte impatto su Naomi come persona e come atleta. Lei, nata nel 1997 ad Osaka da madre giapponese e padre haitiano conosciutisi a New York, dove la famiglia si è trasferita di nuovo nel 2000. Lei, che come la sorella porta il cognome di sua madre per via della diffidenza della società giapponese verso gli stranieri. Lei che ha scelto di rappresentare il Giappone al posto degli USA, e per questo è stata aspramente criticata dalla comunità afroamericana che cominciava a vederla come un nuovo emblema, ma come dice la stessa Naomi, non si è neri in un solo paese.

E agli US Open 2020 l’obiettivo è stato il raggiungimento della finale più che la vittoria, in ogni caso conquistata. Sette match, sette volte lo stadio vuoto, sette mascherine nere con scritte bianche, sette nomi di vittime della violenza razzista della polizia statunitense.

La struttura della docuserie, tre episodi tutti sotto i 45 minuti, forse può risultare insufficiente a raccontare due anni di vita di un’atleta di questo calibro, soprattutto con un ritmo così lento. Ma la vita di Naomi che ci viene mostrata è questa: una continua ricerca del rifugio, nella famiglia, nelle poche persone fidate, per far riposare una furia che esplode nella racchetta.

Naomi vince, ma i suoi affetti, i suoi mentori, fotografi, giornalisti, avversarie, sono poco più che uno sfondo. Nel tennis si vince e si perde da soli, si vive da soli. Questo vale soprattutto per chi, come Naomi, riserva tutte le proprie energie e il proprio carisma per il campo, e nella vita quotidiana non ha paura di essere una ragazza solitaria e riservata, con la peculiarità di avere un talento sconfinato e di essere tra le pochissime donne presenti nella classifica dei 100 sportivi più ricchi al mondo secondo Forbes.

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Nicolò Cretaro, Redattore