Come per ogni storia di finzione, un documentario, soprattutto quando parla di vicende contemporanee, è l’intreccio di tante storie diverse: un frazione di realtà – o, meglio, una prospettiva sulla realtà – con cui siamo chiamati a dialogare. E questo vale anche e soprattutto per una storia “dal basso” come My sweet land, debutto nel lungometraggio documentario di Sareen Hairabedian. Co-produzione internazionale (Francia, Giordania, USA e Irlanda) realizzata nel corso di cinque anni tra due diversi continenti, ha avuto il suo debutto allo Sheffield Doc Fest e fatto il giro di alcuni tra i più importanti festival di documentari al mondo. Tra questi il Verzio Film Festival che, ogni anno, porta a Budapest storie che raccontano i diritti umani e il contemporaneo. Nel corso della ventunesima edizione, svoltasi dal 6 al 13 novembre, abbiamo partecipato a una roundtable con la regista, che ha parlato con entusiasmo e acuta sensibilità del film. E, con il film, ha parlato anche di tante storie diverse: quella di una popolazione, di sé e del giovanissimo protagonista.
Sentieri di presente
Questa storia nasce dal bisogno di raccontare una terra lontana: la propria.
“Le storie su questo tema potevi contarle sulle dita di una mano. Una popolazione che subisce pulizia etnica dalla regione dei loro genitori; i media ne hanno parlato per una settimana o due, poi basta. Nel 2018 avevo finito un altro film, un corto di 40 minuti sui veterani di guerra, e sull’impiego di arte e poesia nell’elaborazione del trauma [We are not done yet, trasmesso da HBO, ndr]. Questo mentre vivevo negli Stati Uniti. Dopo, sentii di voler raccontare una storia legata a una regione con cui avevo molta familiarità, e come i bambini crescono in una zona in cui la guerra è inevitabile, e può scoppiare da un momento all’altro.”
Questa regione è il Nagorno Karabakh (Artsakh in lingua armena), regione contesa dall’Azerbaigian, portata sotto il suo controllo a seguito delle conquiste militari nel 2020 e di un ulteriore invasione nel 2023, che ha causato l’esodo di oltre 100 mila persone. Tra queste troviamo anche la famiglia di Vrej: 11 anni appena, quando comincia a parlare alla camera e a dimostrare la sua personalità esuberante e fuori dal comune. “Ho incontrato trenta famiglie in villaggi diversi” dice Hairabedian; “La famiglia di Vrej è quella che è rimasta impressa di più: alla fine, sentivo che per poter scavare in profondità nella storia di questa regione avrei dovuto concentrarmi sulla storia di una sola famiglia. All’inizio l’idea era di realizzare un ritratto della regione. Poi è scoppiata la guerra.”
Nel settembre 2020, scoppia il conflitto, e la famiglia di Vrej è costretta a evacuare. Sareen Hairabedian li segue: abituata a girare in zone geografiche (e psicologiche) dove il conflitto è appena fuori dalla porta di casa. La regista non si fa vedere mai; eppure, la sua presenza è ben tangibile, oltre il mezzo della ripresa: nelle occasionali risposte alla curiosità di Vrej, risposte mormorate a mezza voce per non disturbare il flow della storia. Nel rapporto di fiducia instaurato con la famiglia del protagonista. Nella posizione acuta e allo stesso tempo umile, che cattura le discussioni tra i membri della famiglia, gli sguardi, le domande senza risposta.
“La cosa più importante, per mè, è sempre stata la fiducia: diventare invisibile, a un certo punto. La maggior parte del tempo, si è trattato solo di presentarmi a videocamera accesa, e le cose hanno cominciato ad accadere naturalmente, senza intervento o domande da parte mia. A un certo punto, la fiducia era così forte che era lui a fare domande a me.”
Notizie, resoconti dei media, filmati di repertorio entrano nella routine quotidiana della famiglia, e pure nel nostro sguardo. Le tensioni costanti, le guerre presenti e passate, permeano la vita della gente comune, la sua cultura e le sue arti. L’opera di Sareen Hairabedian è un insieme di sguardi e voci, di canzoni popolari armene e film che ripristinano e riverberano i sentimenti di una popolazione oppressa. Riflette non solo le tensioni e gli ostacoli che le persone sopportano durante il conflitto; ma anche i media stessi, il loro ruolo nel rivelare e nascondere la realtà.
Passando dal generale al particolare, Hairabedian porta in superficie ciò che spesso viene lasciato indietro nella narrazione di eventi storici e guerre contemporanee: la perdita delle case, lo sradicamento forzato, spazi di speranza e futuro che si disgregano nell’incertezza. Di Vrej resta una domanda: “che ne sarà di me?”.
“Quando mi ha fatto quella domanda, sentivo che quella era la domanda di un’intera generazione, di un intero popolo. ‘Cosa ci succederà?’. Questo vale anche per le persone che vivono in zone di guerra in tutto il mondo. Ho lasciato intenzionalmente questa domanda senza risposta, perché risposte non ne ho.”
E ora?
“Quando ancora dovevamo cominciare a lavorare al progetto, quando lo presentavamo ai pitch, la domanda più frequente era: ‘Dove andrà a parare questo film? Ok, ci state mostrando questo ragazzino in una zona di guerra. E poi? Non c’è conflitto’. Ma da parte mia, volevo portare attenzione a questa regione. Volevo mostrare che, anche se una guerra non è ancora effettiva, è come una nube. Qual è il suo effetto sulle persone, come cambia il modo in cui una società cresce le sue generazioni più giovani. Quella era la mia direzione: che comprendeva anche, da parte mia, imparare il più possibile.”
My sweet land è un progetto intimamente legato al caso, alla contingenza delle sue modalità produttive, del contesto storico in cui si muove. Appoggiato su un precario equilibrio di tensioni politiche e persecuzioni etniche.
Soprattutto, è una storia ancora in corso. Il conflitto ripreso dal film è durato pochi mesi, ma gli scontri continueranno anche dopo la parola “fine”. La famiglia di Vrej è costretta a fuggire di nuovo e, anche se Vrej cresce in un giovane adulto che ha appena cominciato a inseguire il proprio sogno, la questione rimane ancora aperta. Una linea di perenne incertezza per un futuro dominato dalla prospettiva di nuovi scontri, nuove perdite; una linea su cui si muove anche lo stesso documentario.
Inizialmente proposto dalla Giordania per concorrere all’Oscar al miglior film internazionale, la candidatura è stata ritirata poi a inizio novembre, a seguito di pressioni diplomatiche, come dichiarato da una dichiarazione ufficiale della Jordan’s Royal Film Commission. La scelta del soggetto ha immancabilmente suscitato controversie in Azerbaigian. “In questo momento siamo impegnate a spingerlo nella categoria miglior documentario”, dice Hairabedian in un’intervista a Variety; “Vogliamo continuare a parlarne, a evidenziare la storia di Vrej, che è la storia di tanti bambini e bambine, i cui problemi e le cui paure rimangono inascoltate dal resto del mondo”.
Fonti: Internazionale, Deadline, Variety
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