Nell’epoca di universi condivisi, multiversi, saghe, prequel, requel, sequel e reboot, forse questo di Missing è il più insolito e inatteso: il film della coppia Nicholas Johnson e Will Merrick si pone infatti come sequel stand-alone di Searching (2018), di Aneesh Chaganty, che torna in veste di soggettista e produttore per creare un universo condiviso di film-screencast (o screenmovie: quei film narrati tramite uno schermo di un pc, di uno smartphone, di un televisore o di qualsiasi altro apparecchio elettronico). Forse agli occhi e alle orecchie più attenti non sarà sfuggito il collegamento più velato a Run, altro thriller di recente uscita e sempre con Aneesh Chaganty in cabina di regia: non è quindi ancora ben chiaro che progetto si stia cercando di portare avanti, se un universo condiviso di “thriller onscreen” (Run non aveva questa caratteristica, forse il collegamento era semplicemente un easter egg fine a sé stesso), oppure un filone antologico di cui Chaganty terrà le redini.
Infatti, se Searching raccontava di un padre che indagava sulla scomparsa della figlia attraverso il suo laptop, Missing ribalta le premesse aumentando anche il livello di complessità del puzzle digitale: la trama tratta dell’adolescente June (Storm Reid) che con ogni mezzo tecnologico a sua disposizione dovrà cercare di ritrovare la madre Grace (Nia Long), scomparsa assieme al fidanzato Kevin (Ken Leung) dopo essere partita da Los Angeles per la Colombia. Utilizzando strategicamente tutti i diversi device, l’impresa porterà June a scavare a fondo nel passato della madre, del primo marito e del compagno attuale, costringendo la ragazza a mettere in dubbio ogni sua certezza…
Computer screen film: fra pregi e difetti
Sebbene si possa pensare che lo screenmovie sia un campo ancora inesplorato, in realtà The Collingswood Story utilizzava questa narrazione digitale più di vent’anni fa, nel 2002, a cui seguirà l’esplosione del genere a livello globale nel 2014 grazie all’horror Unfriended. Come il suo parente-genere stretto mockumentary (il falso documentario: The Blair Witch Project, Rec, The Visit, ecc.), i film-screencast cercano di portare alle estreme conseguenze il livello d’immedesimazione dello spettatore, catapultandolo dentro a questa galassia multiforme di schermi digitali dove naviga quotidianamente. Per avere un forte impatto sul pubblico e per mantenere saldo questo pseudo sfondamento della quarta parete, l’effetto di realismo necessita, tuttavia, di risposte a domande fondamentali: da dove provengono le musiche di sottofondo se ciò che stiamo vedendo è una registrazione-schermo? Chi ha montato le diverse registrazioni? Chi ha aggiunto i diversi zoom sullo schermo? Insomma: perché esiste il film? Domanda non banale, a cui non sono tenuti a rispondere i film che non utilizzano questo particolare espediente narrativo. Se si adotta la tecnica dello screenmovie, invece, si compie una scelta ben precisa e radicale, teorica nella sua semplicità, e lo spettatore (perlomeno quello coscienzioso e con stima di sé) merita una risposta. Sfortunatamente, Missing non ha alcuna intenzione di saziare i legittimi dubbi del pubblico e in termini teorici è una forte contraddizione, un netto rinnegamento della sua intrinseca essenza. Purtroppo il realismo crolla, tutto resta artefatto, finto, costruito ad hoc, e ne risente così anche la costruzione della tensione perché l’immedesimazione arranca, fatica a restare solida, talvolta svanisce. In ogni caso, come gran parte delle abiure, sotto a questo atto del rinnegare forse c’è una seconda scelta – teorica, a suo modo – ben precisa.
Schermi identitari
La scelta compiuta dal thriller hi-tech di Johnson e Merrick non insiste sull’effetto di iperrealismo e metacinematografico, ma resta su di un piano legato alla sfera narrativa interna per riflettere sulla contemporaneità: il mondo d’oggi è tecnologizzato a tal punto che i soli device consentono di risalire a qualsiasi fonte, permettendoci ipoteticamente di risolvere crimini e salvare vite umane. Si: quella stessa tecnologia dove, però, quelle vite racchiuse in uno schermo possono anche nascondersi e mutare nome, identità e aspetto. Non è un caso che in Missing rivesta un ruolo centrale il concetto di identità: l’enigma al centro del film non è il ritrovamento delle persone scomparse, bensì la ricostruzione delle rispettive identità, trasformiste al pari dei numerosi plot twist, ribaltamenti di trama e sentieri narrativi inaspettati e inesplorati che sgretolano continuamente ogni certezza di June, così come dello spettatore. Identità in perfetta simbiosi con la tecnologia, protette da password, mediate, mascherate, proprio come le maschere (o avatar) dei loro profili social, dei loro nomi online che sono a loro volta una mediazione, esattamente come gli schermi dove hanno dimora.
Ormai, il mondo virtuale si è tramutato in un contenitore digitale che niente ha di diverso rispetto a quello reale ma, anzi, nei flussi di dati, codici, geo-localizzazioni, Instagram stories e cronologie web, si cela una società ancor più reale di quella tangibile. Quel mondo immateriale in cui June si muove decisamente più smart e scaltra persino rispetto alla polizia, facendo emergere il gap generazionale tecnologico che, forse, porterà anche il film stesso a poter essere gradito di più dai giovani rispetto agli adulti.
Proseguirà questo universo condiviso di “thriller screenmovie”? Quali sono i veri progetti di Aneesh Chaganty? L’idea, per quanto stramba e inattesa, non è produttivamente ed economicamente azzardata: resta il rammarico del tradimento teorico in virtù di un cinema più accessibile e di consumo (basterebbe un piccolo sforzo di penna per restare coerenti anche su di un piano concettuale), ma Missing cerca il grande pubblico e non rigetta la sua natura di prodotto commerciale, riuscendo anche a imbastire un – seppure semplice, ma non semplicistico – discorso sul carattere simbiotico che soggiace fra mondo on e off screen.
Un monito o un elogio? Questo starà a voi deciderlo…
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