Dio disse ad Eva, dopo che lei aveva disubbidito a Dio, “Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli; i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te”.

Genesi 3:16

ALEX GARLAND TORNA AL CINEMA

Questa volta è proprio il caso di dirlo, Alex Garland torna al suo habitat naturale, nell’unico luogo in grado di rendere giustizia ai suoi film: il grande schermo. Se con l’esordio Ex Machina del 2015 (nonostante tre anni prima avesse co-diretto Dredd – Il giudice dell’apocalisse con Pete Travis ma senza accreditamento) aveva esplorato il rapporto tra uomo e (auto)coscienza attraverso il filone della fantascienza del “near future” (una immaginaria dimensione futura drasticamente simile a quella attuale), con il direct-to-Netflix Annientamento del 2018 aveva volto un altro sguardo al futuro più lontano pur andando sempre a discernere visionariamente il piano esistenziale dell’essere umano in senso lato e dell’essere umani in senso stretto. Ora, quattro anni dopo il suo ultimo lungometraggio – nonostante si sia dedicato al piccolo schermo nel 2020 con la miniserie di otto episodi Devs, distribuita su Hulu -, oltre a confermare la necessità di godere delle sue opere al buio di una sala per un’esperienza visiva e sensoriale, Garland riconferma la sua discesa negli inferi dell’esistenza umana (ri)prendendo le distanze dal presente, non più guardando avanti ma indietro: con Men andiamo alle origini, al folklore, al “folk horror” per l’appunto.

In Men ci viene narrata la storia di Harper (una bravissima Jessie Buckley) che a seguito dell’apparente suicidio del marito James (Paapa Essiedu) – la cui incapacità di accettare il divorzio voluto da Harper era sfociata anche in gesti di violenza -, si reca in vacanza nelle campagne inglesi di Cotson, nella casa di proprietà dello strano Geoffrey (un inquietantissimo Rory Kinnear). Per Harper, il trasferimento nelle amenità della natura britannica porterà con sé anche un’onirica e surreale spirale di follia in cui ogni uomo che incontrerà nel suo cammino sarà spaventosamente simile a Geoffrey.

Harper (Jessie Buckley) parla con James (Paapa Essiedu)

FOLK HORROR

Difficile tradurre in scrittura le tematiche affrontate da Men, poiché si razionalizzerebbe un testo filmico che, al contrario, rifugge qualsiasi tipologia di piano razionale: siamo nel puro “folk horror”, in quel sottogenere che può fregiarsi di pellicole come The Wicker Man ma anche del più recente The Wailing e perlopiù formato da scenari rurali che imprimono atmosfere d’isolamento, dove spesso è fondamentale il ruolo della natura – di cui prevale l’aspetto più tenebroso e maligno – e dove il profano diviene sacro attraverso riti ed echi religiosi. Garland è ben cosciente del panorama cinematografico in cui si sta muovendo e pertanto gioca con lo spettatore e coi generi nelle maniere più inaspettate e sorprendenti: il folklore, che rimane sempre il perno del film, è intriso di “home invasion” e – sullo sconvolgente finale – anche di un “body horror” che ci proietta mentalmente a una certa tradizione ottantina sulla linea di Society – The Horror di Brian Yuzna, così come di Brood (La covata malefica) del maestro Cronenberg. Si va alle origini, anche in senso letterale: il sacro assume le sembianze di Harper e della sua parabola molto simile a quella di Eva nel primo libro della Bibbia, quello della Genesi, di cui ci sono espliciti richiami visivi e narrativi (a partire dal peccato originale con Harper-Eva che mangia il frutto proibito della conoscenza). Assumendo che i versetti della Genesi 3:16 siano la base di partenza, non bisogna pensare che Garland abbia realizzato un “film-tesi” o un “rompicapo di genere” dove si guarda dall’alto al basso lo spettatore per porlo di fronte a un’onanistica e inutilmente cervellotica sfida di elucubrazione; la bellezza del folk horror consiste nell’offrire al al pubblico la possibilità di trovare un messaggio personale e declinabile attraverso la propria sensibilità e (de)formazione culturale.

Una scena del film

L’AUTORE DIETRO AL FILM

Ovviamente è importante che prima di dedicarsi a progetti di questo tipo, la personalità dietro alla macchina da presa si sia già guadagnata una sua credibilità e coerenza: è questo il caso di Alex Garland. Sin dal suo debutto da regista nel 2015, avvenuto dopo una decennale carriera da sceneggiatore dove in duplice battuta ha affiancato anche Danny Boyle, Garland ha sin da subito affermato la sua poetica in modo chiaro e preciso: le immagini stilizzate ed esteticamente appaganti sono sempre al servizio di immense riflessioni sulla vita e sull’esistenza umana, trasposte su di un piano filosofico e ampiamente introspettivo che trapassa e oltrepassa la fantascienza.

In Ex Machina si affrontava sempre la genesi ma non di una persona, bensì dell’intelligenza artificiale Ava, che dava adito a una riflessione sull’inquietudine emergente dall’assottigliamento in quest’ultima della distanza fra l’autocoscienza umana e la capacità di ragionamento. Negli orizzonti sci-fi di Annientamento – non a caso sempre concernente un apparente suicidio di un marito – si esplorava invece l’assimilazione e la metabolizzazione del dolore e della morte, dove l’Area X esplorata dagli scienziati-militari si espandeva inquietantemente come una massa tumorale.

La presenza ancestrale di Cotson

NON SOLO MASCOLINITA’ TOSSICA

Men vira pienamente sull’horror assurgendo a naturale espansione di quel senso d’inquietudine che permeava già i due precedenti lavori del regista e che ora si tramuta in un orrore già insito nell’essere umano, primordiale, passato, folkloristico per l’appunto. E’ chiaro il richiamo al – purtroppo ancora contemporaneo – problema della mascolinità tossica, addirittura esplicitato dal titolo del film e rimarcato sia dalla sola presenza di Harper come personaggio femminile, “invaso” da molteplici figure maschili aventi tutte il volto di Geoffrey e ciascuna impersonificazione di un diverso ruolo sociale (il prete, l’adoloscente, il frequentatore di pub, il poliziotto), sia dai numerosi simbolismi tanto biblici quanto medievali (come le sculture di Sheela na Gig, rappresentanti donne nude dalla vulva ingigantita). Ma non bisogna fermarsi a questo mero piano superficiale. Il film, come i precedenti, si presta a svariate interpretazioni riguardanti l’esistenza come violenza e costante sofferenza dove il grido, da vagito-inno alla vita, una volta adulti si trasforma in strumento di mitigazione del dolore. Tuttavia in Men le uniche grida che sentiamo sono quelle folli degli “invasori”, mentre quelle di disperazione sono tutte afone, proprio in quei momenti in cui il grido dovrebbe lenire l’angoscia. Ricorriamo allora all’amore per sopportare quegli istanti, a quello stesso amore che però è spesso sopraffazione e imposizione, per amare e per essere amati, in una ciclica parabola di sofferenza che assumerà coerentemente sembianze fisiche nella parte “body horror” finale. Ma queste sono soltanto alcune delle multiformi chiavi di lettura offerte dal film, starà al singolo spettatore collegare i diversi lampi interpretativi lanciati da Garland.

Nella sua disorientante narrazione, Men non può non ricordarci un altro film che nel 2017 ha fatto – guarda caso –  unanimemente stizzire l’intera platea della Mostra cinematografica di Venezia, Madre! di Darren Aronofsky, anch’esso impregnato di evidenti parabole bibliche declinate in un travolgente “home invasion”.

Il grido di disperazione afono di Harper

ELEVATED HORROR?

Leggendo il nome di A24 dietro a Men – la casa di produzione che tipicamente punta all’aspetto autoriale dei suoi progetti – si è tornati a parlare di “elevated horror”, nonché di un “horror d’autore” – termine già fallace di principio: come se ogni film non presupponesse una poetica autoriale – lanciato da film come Babadook o The Witch e dove si cercano forme e approcci anticonvenzionali per i tempi che corrono (per esempio, spesso si rifuggono i jumpscares o gli espedienti del facile spavento per avvicinarsi a strutture originali e autentiche). Questa tendenza di distinguere Men e i prodotti più prettamente “arthouse” dal resto del filone horror attuale, altro non è che un perfetto specchio dei tempi che corrono: una contemporaneità in cui l’horror ha perso la sua dignità per essere concepito come mero prodotto “fast food”. Mangi e butti nel cestino: ma non Men.

Garland ci spinge a riflettere tanto sulla potenza coinvolgente e suggestiva del mezzo filmico quando goduto su grande schermo, quanto sulla natura umana spesso maligna – soprattutto nei confronti delle donne – e scelleratamente autoconservativa.

Visionarietà e universalità: l’horror nella sua forma più pura e urgente.

Che mese fortunato per il cinema horror: se ti è piaciuto Men, non perderti anche la recensione di Nope di Jordan Peele!

Se invece vuoi approfondire il cinema di Alex Garland, clicca qui per la recensione di Ex-Machina.

Questo articolo è stato scritto da:

Alberto Faggiotto, Redattore