Il cinema di Apichatpong Weerasethakul richiede l’accettazione del mistero, ossia l’accettazione della certezza che nella realtà ci sia un sottofondo spirituale al quale dobbiamo fare appello se vogliamo vivere profondamente, concretamente e in maniera identitaria – cioè appartenendo profondamente a noi stessi – questa stessa realtà.

Massimo Causo

Apichatpong Weerasethakul, regista thailandese classe 1970, è uno tra i più bizzarri e personali cineasti contemporanei. Salito alla ribalta internazionale nel 2010, grazie alla Palma d’Oro vinta per Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, ha sviluppato uno stile complesso e unico nel suo genere, che gli ha fatto meritare la nomea di Autore. I suoi film – tra i più belli vale la pena ricordare almeno Tropical Malady (2004) e Cemetery of Splendour (2015), oltre al già citato Zio Boonmee – sono spesso poco parlati, rarefatti nelle atmosfere, animati da una dimensione spirituale potentissima, che sovente si esplicita nell’incontro con misteriose presenze fantasmatiche che dimorano nella giungla thailandese. Con Memoria, tuttavia, Weerasethakul ha abbandonato il proprio paese natio per realizzare una coproduzione internazionale girata in Colombia, con la presenza nel cast di una grande star come Tilda Swinton. Quella dell’Autore che abbandona il proprio paese per realizzare un ambizioso progetto all’estero è ormai una pratica diffusa tra i grandi registi del nostro tempo: si pensi, per fare solo qualche nome, a Paolo Sorrentino con This Must Be The Place, Bong Joon-ho con Snowpiercer, Park Chan-wook con Stoker, Asghar Farhadi con Tutti lo sanno e Kore-eda Hirokazu con Le verità. Cambiano gli addendi, ma lo schema resta simile. Nel caso di Memoria, poi, i paesi coinvolti sono ben undici – Colombia, Thailandia, Regno Unito, Francia, Germania, Messico, Cina, Taiwan, Stati Uniti, Qatar e Svizzera – e tra le decine di coproduttori e produttori associati che si possono leggere nei titoli di coda figurano grandi nomi dell’establishment cinematografico internazionale: il cinese Jia Zhangke, la colombiana Cristina Gallego, persino Danny Glover (!). Tutto questo permette di avere un’idea su come avvenga la produzione e il finanziamento di pellicole di questo tipo: attraverso un’autentica “chiamata alle armi” degli ammiratori di Weerasethakul, che sfruttano la propria influenza per raccogliere i finanziamenti necessari e sostengono il film nella sua circolazione globale.

Memoria, vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes 2021, inizia a Bogotà, dove la scozzese Jessica, donna d’affari in ambito floricolo, è svegliata una notte da un potente rumore sordo. Il giorno successivo, la donna si reca all’ospedale a fare visita alla sorella Karen e scopre che, nei pressi della struttura, stanno avendo luogo degli scavi archeologici che stanno portando alla luce diversi scheletri antichissimi. Faticando a dormire la notte e continuando periodicamente a udire il rumore, Jessica si rivolge a un giovane ingegnere del suono, Hernán, per provare a ricrearlo digitalmente. I due, a poco a poco, diventano amici, forse persino qualcosa di più, ma un giorno lui scompare nel nulla, come non fosse mai esistito. Jessica, allora, parte per un viaggio nella Colombia rurale, in cerca di risposte. Lì incontra un altro uomo di nome Hernán, ma notevolmente più in là con gli anni, con cui stabilisce una connessione particolare.

Prendere o lasciare: Apichatpong Weerasethakul è un regista a cui bisogna affidarsi. Anche nei suoi film thailandesi è oggettivamente difficile (anche, ma non solo, per distanza culturale) comprendere appieno il complesso immaginario mistico-religioso-animalesco-mostruoso-fantasmatico che li anima. Eppure, se si è in grado di lasciarsi andare e di farsi coinvolgere dall’affascinante universo visivo e sonoro che il regista sa evocare, le sue pellicole, nella loro disarmante e sonnolenta lentezza, sanno coinvolgere ed è possibile scoprire in esse dimensioni emotive rare a viversi altrimenti. Se ci si accosta a esso con concentrazione e pazienza adeguate, il cinema di Weerasethakul lascia un senso di profonda spiritualità e permette di ripensare i concetti di vita, morte e relazione umana sotto una nuova luce. Bene: Memoria non sovverte queste premesse, ma per altri versi è assai diverso dal cinema precedente del regista. Il mondo in cui Weerasethakul immerge la protagonista Jessica, interpretata da una Tilda Swinton che sa trasmettere tutto il senso di spaesamento del personaggio, è un universo di assoluta normalità, in cui a poco a poco si manifestano elementi di discontinuità, quasi dei varchi su un’altra dimensione: il misterioso rumore; l’inspiegabile apparente evaporazione del personaggio del giovane Hernán (i suoi colleghi ingegneri, improvvisamente, sostengono di non averlo mai conosciuto); i bizzarri sogni della sorella di Jessica, che attribuisce la causa del proprio malessere e del proprio ricovero ospedaliero prima a un cane, poi agli incantesimi di una sorta di una tribù indigena che vive nella giungla; la progressiva riemersione, durante gli scavi archeologici, di resti umani risalenti a migliaia di anni prima, testimonianze di una dimensione ancestrale che pare travalicare i limiti temporali della realtà. 

Jessica si aggira in questo mondo così normale ed eppure così legato all’oltre come in uno stato di trance (più o meno la condizione in cui Weerasethakul vorrebbe indurre gli spettatori), interrogandosi sulle origini di tutto ciò e imbattendosi, grazie alla sua professione, in un ipertecnologico armadio per la conservazione dei fiori in cui “il tempo si ferma”. Ecco, il mondo di Memoria pare essere un po’ come quell’armadio: è un luogo in cui alcuni elementi paiono vivere in una dimensione propria, separata rispetto al normale flusso del tempo e della realtà. E – come si scopre durante la lunga scena del colloquio con il secondo Hernán, quello più vecchio (sorge chiaramente il dubbio che si tratti di una versione invecchiata del giovane uomo scomparso) – l’elemento che pare più resistente al tempo in questa “dimensione altra” sono i ricordi, la memoria del titolo. Jessica e Hernán, infatti, discutono di diversi temi (sogni, memoria, reincarnazione, vite passate) e, a poco a poco, paiono sempre più legati dalla condivisione della predisposizione a captare i segni della dimensione dei ricordi, della collisione tra diverse temporalità. Tra questi due personaggi, che odono il misterioso rumore, nasce la comunicazione: i due riescono a sintonizzarsi (letteralmente!) su una comune frequenza e fondono le proprie esperienze passate, presenti e future, dando vita a un’intima dimensione di compartecipazione degli (infiniti?) tempi delle proprie (infinite?) vite. Jessica e Hernán riescono così a sentirsi, ad ascoltarsi, a capirsi, forse. Ed emerge un rapporto umano fecondo, come nessun altro lo era stato nel corso di un film in cui spesso i personaggi comunicano con dialoghi bizzarri, sterili, ai limiti del grottesco. Il più grande difetto e limite di Memoria, paradossalmente, è che Weerasethakul – differentemente da quanto fatto in altri suoi film misteriosissimi ma, proprio per questo, affascinanti – senta, nel finale, l’esigenza di rivelare la fonte del rumore, con una trovata fantascientifica che non appare molto coerente con il resto della narrazione.

Il desiderio di spiegare, poi, va in controtendenza proprio rispetto alla natura dell’opera nel suo complesso. Enigmatico per natura, Memoria avrebbe beneficiato di una narrazione pienamente aperta, anche nei suoi esiti finali. A prescindere da ciò, comunque, l’ultimo film del regista thailandese non è certo per tutti: lo apprezzerà chi riuscirà, con pazienza, a farsi ipnotizzare dall’elaborata composizione delle inquadrature (Weerasethakul realizza molti piani sequenza a camera fissa) e dalla bellezza delle immagini (l’eccellente fotografia è del solito Sayombhu Mukdeeprom, divenuto frequente collaboratore anche di Luca Guadagnino), a farsi cullare dal raffinato tappeto sonoro e a farsi emozionare dal brivido della sintonizzazione di soggettività a opera di forze inspiegabili. L’autore di questa recensione, questa volta, ci è riuscito solo in parte. 

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Jacopo Barbero, Vicedirettore