Megalopolis – Una favola di Francis Ford Coppola ha debuttato in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma. Nessun luogo avrebbe potuto essere più appropriato per introdurre questo epico racconto di conflitto dell’oggi, di ieri e di domani. Megalopolis che Coppola ha sognato di realizzare per decenni, Megalopolis che fluttua nella bancarotta, Megalopolis che si trasformerà presto o tardi in un nuovo grande classico della storia del cinema.

Dalla prima inquadratura, Megalopolis è visivamente sensazionale. Un’architettura neoclassica, inclinata e stonata come la trama che andrà a raccontare, si staglia contro un cielo ipnotico, mutante,  surreale, emblema di un tempo sfuggente e della società ingovernabile che sovrasta. E segnale insieme anche della materia troppo ambiziosa per stare sotto questo modesto artificio. Megalopolis non è compiuto, non è riuscito, forse non è nemmeno bello, eppure è geniale e visionario, per quello che racconta e per la maniera anarchica, imprevedibile e incodificabile di comunicarlo.

Passato

New Rome, una metropoli di fantasia nell’America del futuro dove riverberano gli ultimi atti della repubblica romana, è un impero metaforico della società occidentale contemporanea, governato da un’agiata aristocrazia e sull’orlo della crisi. I patrizi impartiscono ideali alti e conducono una vita dissoluta e corrotta mentre la plebe vive e si ribella nella miseria. Pochi uomini detengono il potere e decidono per la vita di milioni di persone.

Il formidabile architetto Caesar Catilina (Adam Driver) ha inventato un nuovo materiale in grado di rivoluzionare qualsiasi tecnologia nota, e propone di impiegarlo per costruire una nuova città, Megalopolis, sulle macerie della precedente. Contro di lui si pone il nuovo sindaco di New Rome, Francis Cicerone (Giancarlo Esposito), per ragioni sia personali che ideologiche. Fra di loro si inserirà Julia (Nathalie Emmanuel), la figlia del sindaco, e sempre più intima dell’architetto.

Il fulcro del film sta nella dialettica tra due modi opposti di intendere il presente dei cittadini e, quindi, il futuro dell’umanità. Nel mezzo, la mediatrice cercherà di imporsi portando il vessillo del valore ritenuto più importante da Coppola stesso: la famiglia. Questa è un’opera personale e assoluta (cioè ab-soluta, priva di vincoli) di Francis Ford Coppola, un affresco nel quale compaiono tantissime comparse e infiniti dettagli infinitamente maturati e semantizzati dall’autore.

C’è un abito che permette di vedere attraverso, ma la verità scandalosa è nascosta in bella vista. Un plastico appena al di sopra del mondo concreto dove discutere come divinità di cosa sta sotto, del presente e del futuro, un ripetersi ossessionato di echi, citazioni e ricordi impliciti ed espliciti: Marco Aurelio, Ovidio, Shakespeare, Rousseau, Petrarca, Emerson, Hitchcock, Freud, eccetera. La mole di suggestioni non è mero citazionismo ma innesto di una trama composita che spazia dal noir al dramma, dallo sci-fi al peplum.

E ci sono dentro tanti piccoli e grandi elementi culturali fondanti della cultura occidentale: un Off Broadway di personaggi che si sfidano a tenzone erudito, baccanali, competizioni sportive che attraversano il tempo, la saga del capitale economico nel sogno americano (alla Lehman Trilogy), l’ubris di un artista, un architetto, che sarà compreso solo tra decenni (come ne La fonte meravigliosa di King Vidor), un dramma borghese, l’utopia di un mondo da ricostruire dopo l’apocalisse.

Presente

Ma, soprattutto, Catilina detiene il super-potere che a Coppola manca: può interrompere il flusso del tempo. Controllo, ossessione e paranoia, la capacità di manipolare lo scorrere attraverso un talento insondabile. E mentre le statue di New Rome crollano sotto il peso insostenibile della corruzione e i piccoli dittatori fomentano la mutevole plebe, l’arte immobilizza, resiste e perdura. Megalopolis è uno di quei rari casi in cui le cose che vengono dette all’interno del film si riflettono in un certo senso anche nel contesto di produzione del film stesso.

Davanti all’incessante progredire delle tecnologie e della disumanità, la mente bergsoniana di Catilina (l’umanesimo di ispirazione classica di Coppola) è l’unico sguardo che può veramente conoscere il futuro: può comprenderlo e potrebbe anche costruirlo, ma va troppo avanti e troppo veloce rispetto a quanto il pubblico sia in grado di stargli dietro. Eppure l’apologia finale è un inno di speranza per le generazioni del futuro, fedelmente alla missione personale dichiarata da Coppola in più e più interviste. E se Megalopolis stesso fosse un prodotto troppo proiettato avanti, destinato a diventare un caposaldo della cinematografia dell’avvenire in un panorama sempre meno ispirato e più ripetitivo?

Contraddistingue Megalopolis un’estetica non uniforme, fatta di realtà, ricostruzione, effetti digitali, immaginari, video di repertorio, disposti nelle più disparate forme, dallo split screen alla mascherina, dallo schermo nero al filtro notturno. È tutto e non è nulla, è talmente variegato da non potersi identificare in qualcosa di pienamente consapevole e consistente. Coppola è ancora un grande maestro che ha delle cose da dire, ma sicuramente gli avrebbe fatto bene avere un produttore che gli ponesse dei limiti.

Si vede che è un progetto lasciato a decantare per anni, nel quale alcune parti sono andate avanti per conto proprio, e il risultato è che tante cose nel corso della trama accadono senza cause o senza conseguenze, come se nulla fosse veramente importante al livello della comprensione. Contro un cinema troppo evidente nel quale è improponibile fare esegesi, Megalopolis è talmente esteso ed ispirato da essere involuto

Futuro

Le scene sono singolarmente eccezionali, ma non funzionano nel totale, troppo frammentato e disomogeneo, orgia di immagini e stili. Il prodotto globale è un collaggio di elementi che non combaciano pienamente. Eppure non si può fare a meno di riconoscerne il coraggio e la visionarietà, anche solo per aver abbandonato la via certa di una formula tradizionale. Anche la produzione “pirata” in solitaria di Coppola ha un ché di romantico nell’ideale di cinema come ultima arte che arranca ma capace di grandi cose.

Ovviamente per una produzione del genere si tende ad attribuire i meriti-demeriti principalmente al regista-autore-autorità scenica, ma sono quantomeno da riconoscere e citare anche le performance di un cast stellare ed eterogeneo e di una troupe internazionale. Adam Driver che incarna una sorta di anti-supereroe (anche anti-Oppenheimer in un certo senso), Giancarlo Esposito austero ma capace di dischiudere una sensibilità non comune, Aubrey Plaza spregiudicata e sensuale, Shia LaBeouf l’anarchico reietto di Hollywood (specchio del regista?), e ancora Nathalie Emmanuel, Jon Voight, Dustin Hoffman, Katherine Hunter e Talia Shire e tutti quanti.

E ancora la fotografia da sci-fi futuristico del romeno Mihai Mălaimare Jr. e la colonna sonora sinfonica e anticheggiante del compositore classico argentino Osvaldo Golijov in perenne tensione a generare quella percezione straniante di già visto, evocativo, elaborato, e allo stesso tempo inaudito, innovativo, rivoluzionario.

Megalopolis è tutto e il contrario di tutto: una saga familiare dove ci si lascia e ci si riprende, un western ribaltato e disorientato, utopia e distopia, ambizione e tracotanza di Coppola e del suo estro illimitato, è sublime e catastrofe, è artificio, sontuoso, profetico, anarchico, plasticoso, dadaista, visionario, kitsch, capolavoro, flop, jazz, caos, esercizio alla disciplina, arthouse, epica, citazione, ossessione. Sarebbe impossibile tentare di comprendere e incasellare tutto oggi, ma quando si sarà depositato sarà impossibile dimenticare l’effetto dirompente: come il suo protagonista, come il suo autore Francis Ford Coppola, Megalopolis non è per oggi ma per i tempi a venire.

Edoardo Borghesio
Edoardo Borghesio,
Redattore.