La protagonista di May December, Elizabeth, si pone sempre una domanda prima di leggere una sceneggiatura: i personaggi del film “sono nati o sono stati creati”? È un interrogativo chiave, il centro gravitazionale dell’ultimo film di Todd Haynes liberamente ispirato alle controverse vicende dell’insegnante statunitense Mary Kay Letourneau, dichiaratasi colpevole di stupro ai danni di un suo alunno dodicenne poi diventato suo marito (e da cui il titolo del film: modo di dire americano per intendere una relazione con enorme differenza di età fra la coppia). May December segna il ritorno di Haynes al cinema di finzione quattro anni dopo il bellissimo Cattive Acque, e dopo essere stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023 è rimasto a secco agli Oscar 2024, dove concorreva per la migliore sceneggiatura originale. Il caso giudiziario di Letourneau è l’espediente per narrare la storia di Elizabeth (Natalie Portman), attrice che deve prepararsi ad interpretare il ruolo di Gracie Atherton-Yu (Julianne Moore), finita sulle prime pagine dei giornali vent’anni prima per aver sposato Joe (Charles Melton), ventitre anni più giovane di lei. Per una performance cinematografica più realistica, Elizabeth decide di approfondire il passato e l’intimità di Gracie venendo ospitata dai due in una piccola comunità sulle coste del Maine, ma la sua presenza metterà tutti sotto pressione.

La sceneggiatura di Samy Burch gioca  col tema del doppio e con il legame arte-rappresentazione-immedesimazione ma, tuttavia, il flirt con il thriller-erotico ottantino anzichè potenziare la narrazione crea un’impalcatura mistery destinata a dividere in due il pubblico. Una buona fetta di spettatori ha già sollevato il dubbio che Haynes ci abbia voluto prendere in giro costruendo, come scrive lucidamente Sergio Sozzo su Sentieri Selvaggi, “l’attesa per una rivelazione che non c’è, un giallo senza soluzione perché senza delitto, un meccanismo che promette un’epifania che rimane costantemente rimandata, appesa, verosimilmente inibita”.

Gracie eviterà sempre di parlare del suo passato, ma l’insistenza di Elizabeth creerà scompiglio nella sua vita privata

Erotic-thriller

Parlando di May December è opportuno scindere due livelli, quello più in superficie – ma non meno importante – della sua natura di genere, e quello più profondo del sottotesto dei doppi, delle maschere, del legame realtà-finzione-rappresentazione. Infatti i rimandi alla tradizione del thriller-erotico, oltre che dalla trama, sono evidenti già dalle musiche di Marcelo Zarvos le cui forti note al pianoforte e i suoi densi archi suggeriscono una costante tensione emotiva, come volessero tenerci sempre sotto scacco. La fotografia appositamente sovraesposta e ultra-patinata, unita ai chiaroscuri della storia di Gracie e alle musiche cariche di suspense e sensualità, non possono che farci venire in mente il cinema degli 80s fatto di misteriose storie famigliari, doppie verità, segreti conturbanti, soprattutto i film targati Brian De Palma, su tutti Vestito per uccidere. Todd Haynes sembra incartarsi però in un cortocircuito, non sapremo mai quanto volontario, perché il film scopre le carte sin dal minuto dodici, quando Elizabeth legge sulle prime pagine di tutti i giornali “Sex scandal: Gracie’s shocking story revealed by insiders” mentre sfogliando trova “The judge ordered no contact with the middle schooler during the trial”, e altri dettagli riguardo allo scandalo sessuale della coppia. C’è davvero poco o niente in più da sapere riguardo alla vena thriller-erotica del film (quest’ultimo aggettivo nascerà, ovviamente, dai risvolti abbastanza prevedibili legati al triangolo Elizabeth-Gracie-Joe) eppure, al pari delle musiche, l’intero film sembra perennemente stringerci in una morsa, come fossimo avvolti da una tensione palpabile che però resta latente, non riuscendo mai a liberarsi o manifestarsi apertamente. Se la trama resta sempre alla luce del giorno allora i significati delle inquadrature criptiche e delle musiche avvolgenti sono da cercare altrove, vale a dire nel gioco del doppio che si instaura fra Elizabeth-interprete e Gracie-interpretata. Ma se in superficie nasce una contraddizione irrisolvibile, teoricamente propedeutica al secondo livello, è possibile ‘scendere’ automaticamente allo strato più profondo?

La relazione fra Gracie e Joe iniziò quando lei aveva 36 anni mentre lui soltanto 12

Pulito, fresco, tu!

Se la tensione degli intrighi e del passato di Gracie perde mordente molto in fretta, più interessante è il discorso intavolato da Haynes sui doppi, sulle maschere e sul rapporto sempre duale soggetto-interprete. I doppi sono in ogni frame, partendo da Elizabeth e Gracie spesso inquadrate in primo piano l’una affianco all’altra, passando per i ricorrenti giochi di specchi che duplicano i corpi, arrivando alle due maschere dei personaggi, quella d’attrice di Elizabeth e quella indossata da Gracie quotidianamente per evitare di fare i conti col passato. È qui che torna la domanda d’apertura: Elizabeth detesta interpretare personaggi creati (e quindi fittizi) ma vuole che siano nati e quindi umani, reali, autentici. Ma come poter assumere i panni di chi lascia intravedere solo la patina? In quest’ottica l’estetica quasi camp è calzante: i visi delle protagoniste sono talmente belli da risplendere ma sono patinati, appunto, artefatti, come piace a Gracie, ostinata a lasciar trasparire esclusivamente il suo lato esteriore e descritta soltanto come “bella” da ogni suo conoscente; l’estetica appassiona anche Elizabeth, che non a caso è testimonial per una linea di prodotti cosmetici (con il claim “Pulito, fresco, tu!”) e che in una scena si farà truccare proprio da Gracie. Nascita-creazione, maschera-realtà, vita-storia, sono termini molto simili ma che corrono su binari paralleli, le cui sfumature aprono a universi completamente diversi: per questo Joe va su tutte le furie quando Elizabeth definisce il rapporto tra lui e Gracie come una storia d’amore (“Questa è la mia vita!”, replica Joe), perché a differenza della moglie vuole che sia una storia autentica. Nonostante ciò, Elizabeth individua gli interstizi di congiunzione fra questi due mondi e capisce presto che l’unico modo per smascherare Gracie è l’emulazione: l’attrice arriva nella comunità del Maine come un foglio bianco e durante il film prende spesso appunti, come stesse progettando una nuova maschera. È per questo che nel finale, finalmente sul set cinematografico, reiterando la finzione Elizabeth comincia ad entrare nel personaggio (“Possiamo farla di nuovo? […] Sta diventando più reale”), costruendone uno suo, speculare alla maschera di Gracie eppure reale: attraverso l’emulazione in carne e ossa, Elizabeth ha fatto emergere ciò che prima era nascosto, ma in un nuovo personaggio, in una nuova maschera.

L’immagine duplicata allo specchio ricorre spesso nel film

Senza scomodare Persona et similia, May December ragiona sul rapporto duale tra identità e finzione strizzando più volte l’occhio alla cinefilia più zelante, fra citazioni e rimandi a lavori del passato. L’impressione è però che il puro gesto d’autore di Haynes riuscirà ad appagare soltanto la piccola fetta di pubblico legata maggiormente al lavoro concettuale del rapporto identitario, lasciando a bocca asciutta chi si aspettava una narrativa più avvincente. La contraddizione in termini di pathos, con l’epifania “costantemente rimandata” sopracitata, è un cortocircuito che richiede grande sforzo per apprezzare il discorso teorico costruito però su storie inconfessabili ma senza segreti, su di un mistery senza enigma. Si può comunque decidere di stare alle regole di Haynes… ma il gioco vale la candela?

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.