Sovvertire i canoni e le tradizionali logiche dell’home invasion era stata una giocata vincente per il regista uruguagio Fede Álvarez: il thriller – caratterizzato da sostanziose tinte horror – Man in the Dark (2016) avevaconquistato critica e pubblico con i suoi 157,8 milioni di dollari al botteghino, a fronte di un budget attorno ai 9,9 milioni. Álvarez era accompagnato in sceneggiatura da Rodo Sayagues ed in produzione dal più altisonante nome di Sam Raimi; non una nuova conoscenza quella con il regista statunitense: appena tre anni prima aveva confidato in Álvarez per il remake de La Casa (2013), dando vita a un prodotto tecnicamente discreto e di certo sanguinolento, ma privo dell’anima lovecraftiana e slapstick-orrorifica che permeava l’originale.

Man in the Dark, invece, aveva il merito di spiazzare lo spettatore; non più un prodotto derivativo ma anzi – per certi versi – originale: tre ragazzi tentavano una rapina nella dimora del cieco Norman Nordstrom (Stephen Lang), Navy SEAL divenuto cieco dopo l’esplosione di una granata nella guerra del Golfo, rimasto senza l’unica figlia ma con un ingente risarcimento ben custodito in cassaforte. La triade di ingenui malfattori doveva far fronte al ribaltamento dei ruoli di topo e gatto, escogitando i piani più disperati per poter uscire vivi da casa Nordstrom.

Non una sfida semplice, quella di Álvarez, di inserirsi nel grande filone della riflessione sulla cecità: sentiamo ancora oggi le scosse di assestamento causate del terremoto di Lars Von Trier, che si era inserito nel nuovo millennio cinematografico squassando tremendamente il pubblico con la sua Selma (Björk) di Dancer in the Dark (2000); cecità come condanna a morte, come flagello, come tutto ciò che permea e logora l’animo umano secondo il perverso genio del danese. Negli anni addietro ci avevano pensato anche Risi e Gassman in Profumo di Donna (1974, di cui un remake di Martin Brest con Al Pacino nel 1992), ma anche Terence Young con Gli occhi della notte (1967),di cui Man in the Dark potrebbe essere considerato il gemello malvagio (Audrey Hepburn era l’innocente Susy Hendrix e sfruttava il buio della sua casa per difendersi da due malviventi che cercavano di rapinarla). Perciò, capiamo bene come sia stata astuta la mossa di Álvarez di giocare coi cliché e con le logiche del genere (e della cecità), per rovesciarli in unmeccanismo destabilizzante per lo spettatore: da che parte stare? Chi è il villain? La banda di rapinatori o lo spietato repubblicano? I diversi meccanismi di capovolgimento narrativo non sottovalutavano l’importante discorso attorno alla legittima difesa negli States, portando il film a costituire la vera essenza del cinema di genere: horror e tensione al servizio di un messaggio politico (e sociale) ben preciso.

DALLA SOVVERSIONE DEI GENERI A QUELLA DEL PERSONAGGIO

Nel tentativo di dare nuova verve all’iconico personaggio di Stephen Lang, L’uomo nel buio: Man in the Dark (2021) vede le proprie redini in mano alla spalla destra di Álvarez – Rodo Sayagues –, co-sceneggiatore delle due opere del connazionale e per la prima volta dietro alla macchina da presa (sempre con Raimi alla produzione).

Otto anni dopo le vicende del primo capitolo, troviamo Norman Nordstrom vivere con Phoenix (Madelyn Grace), ragazzina rimasta orfana a seguito di un incendio e “adottata” dall’anziano. Non ricordando alcunché della sua infanzia, Phoenix è convinta di essere la vera figlia del veterano di guerra ed è costantemente sottoposta a durissimi allenamenti di difesa, vedendo la propria vita (quasi) totalmente limitata all’interno delle quattro mura della proprietà. La perversa e malata idea di famiglia del vecchio non vedente, sarà nuovamente osteggiata dal rapimento della ragazza ad opera di un gruppo di malintenzionati, dei quali si metterà presto alla ricerca perché sia fatta vendetta e per recuperare la “figlia”.

Sayagues intraprende una strada coraggiosa, ma non per questo onorevole ed accorta: il film pesca a piene mani da due enormi filoni del genere horror, l’home invasion (nella prima parte) e il revenge movie (nella seconda).  La “furia cieca” del protagonista (rimando apposito all’omonima pellicola di Phillip Noyce del 1989 con Rutger Hauer, reduce dalla guerra del vietnam con gli occhi menomati ma abilissimo nell’uso della spada) e i suoi ideali repubblicani lo spingeranno al di fuori delle mura domestiche, facendo però uscire al contempo il film dalle pareti di credibilità e verosimiglianza saldamente costruite dal suo predecessore; non possiamo certamente tacciare di pudore Álvarez e Sayagues: non si sono limitati a sovvertire i generi nel primo capitolo, ma – come per sfida – ribaltano ora, nel secondo, anche l’iconica figura di Norman. Non c’è più l’ambiguità fra buono e cattivo, fra vittima e carnefice, fra preda e predatore. Sappiamo perfettamente da che parte stare, se non fosse che il ruolo di antieroe affibbiato all’anziano vendicatore cozzi inevitabilmente con la caratterizzazione dello stesso.

HOME INVASION

L’opera di Álvarez aveva il pregio di lavorare e giocare attentamente con lo spazio e – parossisticamente – con la credibilità delle situazioni poste in essere: limitato agli angusti angoli della propria dimora, Norman sapeva bene come muoversi e quali piani porre in essere per dare caccia ai tre rapinatori. Non è un caso che L’uomo nel buio: Man in the Dark porti con sé tutta la sua dignità di film di genere, proprio durante la prima metà: sebbene ai limiti della verosimiglianza (confrontandosi questa volta non più con sprovveduti ventenni, ma con adulti spietati e armati fino ai denti), l’home invasion targato Sayagues funziona bene, ricalcando il primo capitolo nella regia (in entrambi stupisce il piano sequenza che sinuosamente si aggira per le stanze), ma superandolo in merito a cruenza e impatto visivo. Tecnicamente sorprende (in negativo) il massiccio utilizzo delle lenti anamorfiche, per lo più utili soltanto a distorcere l’immagine a tal punto da risultare un fastidioso feticismo.

REVENGE MOVIE

Il progetto del regista uruguagio comincia a vacillare non appena il nostro Stephen Lang si muove al di fuori delle stanze del suo nido. Da repubblicano con una marcia idea di famiglia e sostenitore estremo della legittima difesa, assume le vesti di un puro e feroce vendicatore disposto a tutto pur di annientare chi ha cercato di demolire questa sua idea di nucleo famigliare. Un netto cambio di registro e di caratterizzazione quello operato da Sayagues: sono passati solo due anni dall’uscita nelle sale del film che, per antonomasia, si è fatto carico del compito di sballottare lo spettatore a destra e a sinistra con la sua mescolanza di generi e i suoi cambi di rotta inaspettati; se si pensa infatti a Parasite (2019) del sudcoreano Bong Joon-ho non si può rimanere indifferenti di fronte al magistrale lavoro sui personaggi con il loro coerente e logico sviluppo, che accompagnava un cambiamento di stato d’animo e d’atmosfera congegnali al messaggio e alla narrazione.

Man in the Dark: l’uomo nel buio tenta questa rotta, ma ne esce profondamente lacerato in due. Gli ingranaggi che avrebbero dovuto far collimare fluidamente e scorrevolmente le due parti assomigliano più a pezzi di nastro adesivo, disconnettendo le due metà e portando la seconda più vicina al recente Rambo: Last Blood (2019). Se nel film di Stallone non si negavano i convinti ideali repubblicani e il finale, più chiaro che mai, a seguito di una carneficina vedeva uno Stallone indebolito e intento a giurare di difendere sempre i propri cari, nel film dell’uruguagio è interessante almeno notare uno (seppur superficiale) sguardo da occhi esterni agli USA. Tuoneranno fragorose le parole di Norman di fronte a Phoenix: “Io non sono un padre. Io ho ucciso. Ho stuprato. Non sono niente. Nient’altro che un mostro”; dietro a ogni atto di vendetta si cela sempre un repubblicano pronto ad uscire allo scoperto, una riflessione che la dice lunga sulla concezione di Sayagues sulla terra di Joe Biden. Cosa va storto allora nella pellicola prodotta da Raimi? Come preannunciato, i meccanismi narrativi devono sempre avere uno sguardo attento ai personaggi che raccontano: purtroppo, un Norman Nordstrom che miete vittime in lidi esterne alla sua casa richiede una sospensione della credibilità – e una sopportazione del parossismo – ardua anche per i più stoici ed appassionati del genere, perdendo (circa) ogni briciolo di credibilità che il personaggio aveva decorosamente guadagnato nel primo film e nella prima metà di questo seguito. In più, non bastano singole massime (come quella citata) per permettere al film di uscirne indenne: l’anziano non vedente appare ai nostri occhi più come un classico antieroe in cerca di vendetta, con una scena finale che – lasciando intendere la possibilità di un seguito – rischia di mandare in frantumi qualsiasi discorso etico e sociale sul personaggio.

L’opera prima di Sayagues avrebbe potuto rappresentare un degno seguito del sovversivo Man in the Dark, ma i cambi di registro e di genere dovrebbero sempre confrontarsi con la sostanza e i caratteri messi in campo.  Bong Joon-ho non era di certo uno sprovveduto.

Questo articolo è stato scritto da:

Alberto Faggiotto, Redattore