Una storia di ingiustizia…
Presentato in concorso durante l’ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Lubo è l’ultimo film del regista Giorgio Diritti (Volevo nascondermi), attualmente al cinema e tratto dal romanzo d’esordio di Mario Cavatore, Il seminatore (2004).
La vicenda raccontata, in entrambi i casi, è ispirata ad un fatto poco precedente all’inizio della Seconda Guerra Mondiale: il programma Kinder der Landstrasse, messo in atto dalla Svizzera dagli anni ’20 ed interrottosi solo nel 1973, che agiva per strappare alle loro famiglie i bambini membri di comunità nomadi con la scusa di “inserirli nella società”.
Protagonista del racconto fittizio che prende le mosse da questa pagina nera di Storia è Lubo Moser (Franz Rogowski), un artista di strada Jenisch (popolazione nomade di origine germanica) che svolge la propria professione con la sua famiglia. L’uomo viene arruolato nell’esercito svizzero, ma mentre è assente la moglie viene uccisa e i 3 figli portatigli via da una associazione, la Pro Juventute, e affidati ad orfanotrofi o altre famiglie. Lubo assume una nuova identità e comincia una nuova vita, inizialmente con l’obbiettivo di ritrovare i suoi bambini, successivamente per mettere in atto una vendetta.
A questo punto, l’opera di Diritti e quella di Cavatore prendono direzioni almeno in parte diverse. Nel romanzo, infatti, Lubo decide, per vendicarsi, di cominciare ad avere relazioni ed ingravidare le cittadine tedesche e svizzere (da qui il titolo “Il seminatore”), “spargendo” così all’interno della società che lo disprezza e lo ha “cancellato” per la sua etnia bambini che abbiano le sue stesse radici. Nel film, questa trama viene introdotta nella prima parte, ma mai esplicitata con chiarezza al pubblico, e come se non bastasse è abbandonata totalmente nella seconda, che vira invece su un dramma sentimentale alquanto classico (per non dire proprio banale) coinvolgente una delle conquiste di Lubo, Margherita (Valentina Bellè).
… priva di qualsiasi mordente
Che l’intento di Diritti fosse quello di mettere in scena un melodramma dall’afflato epico-sentimentale sullo sfondo della Storia collettiva ce lo dice già la lunghezza a dir poco eccessiva di questa opera monstrum: Lubo, infatti, dura 3 ore.
In un momento nel quale il panorama cinematografico sfiora regolarmente o addirittura supera le tre ore di durata (si pensi solo ai recenti Oppenheimer e Killers of the flower moon), lamentare la durata di un film potrebbe risultare quantomai ipocrita, non fosse che, nei due casi sopra citati (in particolare per il film di Scorsese), la durata da alcuni bollata come “eccessiva” aveva motivo di essere. Al contrario, non c’è nulla in Lubo che possa giustificarne i 181 minuti, neppure il fatto che, come nel caso di altri film storici-epici divenuti capisaldi del cinema italiano (ad esempio Novecento o C’era una volta in America), la vicenda si svolga nel corso di un ampio periodo di tempo.
Ad eventi apparentemente secondari o, comunque, dotati di una importanza relativa, vengono riservati tempi troppo dilatati, sia nella narrazione generale sia nella durata delle inquadrature stesse. Ad eventi dotati, al contrario, di un impatto non indifferente nella vita del protagonista e delle persone che lo circondano, viene negato, spesso, di essere mostrati sullo schermo: è il caso dell’incidente scatenante dell’intera vicenda, ovvero la morte della moglie di Lubo e l’allontanamento dei figli, che al protagonista (ed al pubblico) viene solamente raccontato, o ancora, della nascita e sviluppo della storia di amore con Margherita. Ciò, oltre a lasciare dei vuoti non indifferenti nella narrazione, porta alla totale mancanza di impatto emotivo della storia, che pure dovrebbe essere, visto il genere d’appartenenza del film, l’obbiettivo principale.
Non aiutano le interpretazioni degli attori, sorprendentemente sotto tono vista la materia del racconto. Il protagonista Franz Rogowski, che in Italia abbiamo “scoperto” grazie all’interpretazione dell’antagonista in Freaks out e che negli ultimi anni si sta imponendo come un volto prominente ed eclettico del cinema internazionale e del circuito dei Festival, non riesce a convincere totalmente nel ruolo complesso di Lubo, limitato forse, nella seconda parte, dalla necessità di dover recitare in italiano. Gli altri attori si mantengono su un uguale livello sostanzialmente monotono, sia nella mimica sia nella tonalità. Ciò rende ancora più stridente la performance dell’interprete adulto del figlio di Margherita, unico a portare un certo sentimento alla parte che, nell’universo così asettico del film, risulta stranamente fuori posto.
Se sul fronte sentimentale ed emotivo Lubo fallisce, per i motivi sopra citati, anche l’ (apparente) intento sociale e di denuncia non riesce a causa della mancanza di focus della narrazione. L’argomento della pulizia etnica operata da parte della Svizzera passa totalmente sullo sfondo nella seconda parte del film, per poi venire ripresa solo nel finale, fatto che rappresenta l’ennesimo elemento di dissonanza che danneggia la riuscita del prodotto finale.
Conclusioni
Lubo è un progetto che evidentemente, come il suo protagonista, desidera essere tante cose: la storia di un padre alla ricerca disperata dei propri figli; la storia di un uomo impegnato in una particolare vendetta contro la società che ne vuole la morte, portando al contrario la vita; la storia di un amante che tenta di costruire una nuova vita con una nuova compagna ed una nuova prole; la storia, infine, di una crudeltà sistemica ai danni di una comunità che merita di essere raccontata. Tuttavia, perdendosi forse nell’ampiezza dei propri intenti e non riuscendo a sfruttare saggiamente i mezzi messigli a disposizione (specialmente le 3 ore concesse per dipanare la vicenda), finisce col fallire nello sviluppare pienamente e veramente anche uno solo di questi spunti.
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