Love Death & Robots aveva colpito gli animi di molti spettatori appena tre anni fa, quando il 15 marzo 2019 debuttava su tutti i piccoli schermi degli abbonati Netflix. Come un fulmine a ciel sereno, venimmo folgorati dallo sperimentalismo della serie antologica ideata da David Fincher (Fight Club, Seven, Zodiac) e Tim Miller (Deadpool, Terminator – Destino Oscuro), assieme a Joshua Donen e Jennifer Miller, che chiamavano a rapporto i migliori Studios d’animazione statunitensi per immergerci in tanti piccoli e diversi microcosmi incentrati su amore, morte e robot. Elemento caratterizzante la serie – e di non poca importanza – era anche l’etichetta “per adulti”, che ogni breve opera teneva a rimarcare tramite ogni tipo di trivialità e violenze estreme.

Un avanguardismo animato che secondo molti aficionados non aveva tenuto il passo nella seconda stagione (o volume, per meglio dire), dove la netta riduzione di episodi (8 in confronto ai 18 della prima) e l’incessante propendere al fotorealismo, non avevano trovato equo bilanciamento nelle sceneggiature e negli immaginari visivi che fabbricavano; non si erano raggiunti gli apici di perfetta fusione tra forma e sostanza di uno Zima Blue, per esempio, rendendo l’esperienza abbastanza piatta e ripetitiva.

La notte dei mini morti

Questo 20 maggio, sulla piattaforma di Reed Hastings è stato lanciato il terzo volume, che conta un cortometraggio in più del precedente e ciascuno della durata che viaggia fra i 6 e i 18 minuti. Non si abbandonano le tre tematiche care alla serie, rispecchiate nel cuore, nella croce e nel robot del logo, continuando ad esplorare nuovi mondi e futuri distopici. Tornano anche vecchie conoscenze nelle cabine produttive e di regia: ritroviamo Alberto Mielgo in Jibaro (già ideatore de La Testimone, uno degli episodi più apprezzati della prima stagione, e il cui ultimo corto The Windshield Wiper ha ottenuto la candidatura ai passati Premi Oscar), così come Sony Pictures Imageworks (già realizzatore di Lucky 13) con Sepolti in sale a volta – dove in molti non avranno faticato a riconoscere Cthulhu –, mentre con lo studio Titmouse, Inc (Big Mouth) parliamo di vecchie conoscenze prettamente di Netflix, ora impegnate in Morte allo squadrone della morte, inscenante un 2D anni ‘90 che ragiona sul rapporto uomo-tecnologia-animale. Animatori cari ai fan sono anche gli Axis Studios, noti soprattutto per la loro versatilità tecnica che li ha permesso di partire dall’iperrealismo (Helping Hand), passare per un 3D misto ad acquerello (L’erba alta), e arrivare al tratto caricaturale del simpatico (ma innocuo) Mason e i ratti, dove un istrionico anziano si avvale di una nuova tecnologia per sterminare la colonia di ratti nel suo magazzino.

Continuiamo a conoscere anche il trio robot in esplorazione sulla terra di umani ormai estinti (Tre Robot: strategie d’uscita, diretto da Patrick Osborne, animatore di Ralph Spaccatutto e Big Hero 6), e ovviamente non possono mancare le firme di David Fincher e Tim Miller, entrambi evidentemente interessati al fotorealismo: una ciurma di marinai alle prese con un’entità mostruosa è Un Brutto Viaggio di Fincher, mentre Miller preferisce esplorare la fantascienza con Sciame, e la sua colonia aliena che gli umani sono intenzionati a sfruttare.

Con tutti questi nomi altisonanti e di vecchie glorie, si è riusciti ad oltrepassare e fare dimenticare lo scoglio della seconda stagione? La sensazione è che dopo ben 26 episodi tutto sappia di “già visto” e che la critica alla contemporaneità non arrivi sagace e affilata come una lama tagliente. Lo avvertiamo già a partire dall’episodio pilota, che riproponendo il trio di piccoli androidi cala una satira fiacca e scontata, affidando tutto ai dialoghi e dimenticandosi di valorizzare l’animazione. Insomma, questo terzo volume non fa altro che confermare pregi e difetti di Love, Death & Robots: pur lasciando a bocca aperta per la qualità produttiva, siamo lontani da certi picchi della stagione d’esordio, continuando la spasmodica ricerca di un fotorealismo onnipresente e imperante, che seppur interessante come tecnica lascia saltuariamente spazio a veri e rari sperimentalismi d’animazione (come in Jibaro, che nel suo indagare misticismo, religione, sessualità e colonizzazione, è quello giustamente già più chiacchierato e apprezzato).

Un brutto viaggio

Per il quarto appuntamento, bisogna che Fincher e colleghi si impegnino in un vero e proprio lavoro ontologico: qual è il senso del progetto? Qual è la motivazione che giustifica il divieto ai minori? La violenza sempre spinta e le volgarità onnipresenti hanno un loro specifico scopo, o sono semplicemente un’etichetta utile per attirare l’attenzione di chi crede che il resto dell’animazione sia soltanto per bambini? Insomma: quale strada intraprendere, per far sì che sia sfruttato appieno il mezzo animato coinvolgendo tutte le sue potenzialità? Perché ormai abbiamo compreso che i mezzi ci sono, così come le risorse finanziarie. Ma una piacevole esibizione di forma al servizio di una sostanza eufemisticamente risicata, rischiano di far restare nuovamente lo spettatore con un (seppur gradevole) pugno di mosche. Tuttavia bisognerebbe specificare quale spettatore, perché in tanti sembrano lamentarsi eppure anche la terza stagione ha esordito sulla piattaforma in vetta alle classifiche mondiali, registrando su Rotten Tomatoes un indice di gradimento del 100% da parte della critica (certo, siamo solo al terzo giorno di streaming): forse il pubblico ha imparato l’arte di accontentarsi. Ma non sempre è un bene.

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Alberto Faggiotto, Redattore