Finalmente anche in Italia possiamo vedere al cinema Longlegs, il nuovo film del regista primogenito dell’attore Anthony Perkins, Osgood PerkinsOz per gli amici – anche soggettista e sceneggiatore del film. Finalmente potrebbe non dire molto ad alcuni spettatori, perché la bolla social di una parte di pubblico potrebbe non aver intercettato il fenomeno mediatico creato ad hoc dalla casa distributrice Neon che – in breve – ha sfruttato il miglior tipo di strategia promozionale per film horror consacrato dall’ingegno dei distributori di The Blair Witch Project ormai venticinque anni fa: Neon ha creato una campagna marketing virale con l’obiettivo di rivelare il meno possibile del film, partendo addirittura dal titolo dove alcuni teaser trailer presentavano solo simboli misteriosi, passando al plot lasciato abbastanza indecifrabile anche nei trailer più estesi e arrivando al pezzo da novanta per cui la cinefilia e gli appassionati di horror più agguerriti scalpitavano da mesi: Nicolas Cage. Si scrive il suo nome e non quello del personaggio che interpreta – Longlegs, ça va sans dire, il killer spietato del titolo – perché quello che incuriosiva tutti non era tanto cosa avrebbe fatto il suo personaggio ma come l’attore lo avrebbe interpretato. Nei vari materiali promozionali Neon ha saggiamente deciso di anticipare poco o nulla del personaggio in azione e soprattutto della sua presenza scenica, limitandosi scientemente a un poster in cui vedevamo solo dei tratti del viso di Cage che sfumavano in modo affascinante nel rosso emoglobina dello sfondo e qualche rapidissimo fotogramma nell’ultimo trailer rilasciato. Insomma, gli analisti di marketing hanno pane per i loro denti – e ne avranno per il futuro, visto che Longlegs al momento sfiora quota 110 milioni al botteghino su un budget di meno di dieci milioni.

L’unica anticipazione del personaggio di Cage era questo poster promozionale

Passando dal marketing alla critica, nella storia dell’agente FBI Lee Harker (Maika Monroe) che nell’Oregon degli anni ‘90 deve indagare su una serie di oscuri omicidi-suicidi compiuti tra il 1974 e il 1992, a conti fatti la cosa veramente più riuscita e d’impatto è il Longlegs di Nicolas Cage, coerentemente col titolo del film: il lavoro di Perkins, che oscilla tra il filone del noir della frustrazione e l’horror a sfondo esoterico-satanista, ha tutto l’armamentario di entrambi i generi, con le foto appese in ogni angolo d’ufficio, i quaderni con i mille appunti, i codici da decifrare, i fili rossi da unire per far quadrare qualcosa nel caos angosciante e quindi, ovviamente, anche l’angoscia su cui Perkins punta tanto, per non dire tutto, dal momento che la forza di Longlegs non è certamente il plot ma piuttosto l’atmosfera opprimente che carica la tensione sin dal primo minuto per lasciarla costante, senza picchi d’esplosione; sempre sul lato horror troviamo espedienti tipici della dimensione più ludica del filone dell’occulto, come una (inquietantissima) bambola, ma anche brevi frame conturbanti che celano il sottotesto demoniaco, gli stessi con cui il genere si diverte a titillare il pubblico sin dalle fugaci apparizioni di Satana in Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York (ma si potrebbero citare anche le celeberrime comparsate di Pazuzu ne L’esorcista, quelle di Bughuul in Sinister, del demone rosso in Insidious, di Paimon in Hereditary – Le radici del male e via dicendo). Tornando a Cage, in tutto questo è proprio lui a dominare la scena, come sempre, d’altronde, quando il regista di turno riesce ad affidargli un ruolo che permetta al suo istrionismo anarchico e sopra le righe di fluire libero. La cosa più curiosa è che se cronometriamo il time screening del killer arriviamo forse a una manciata di minuti, eppure sulla scia degli insegnamenti dello Squalo, che in questo senso ha fatto storia, la sua presenza è costante, non ci abbandona mai, quando non è sullo schermo è come se fosse nella poltrona accanto a noi per ricordarci che ci sta osservando e, invece, quando appare fa tutto ciò che deve per rimarcare chi è che comanda.

Come in ogni poliziesco che si rispetti bisogna mettere insieme i pezzi

Missione non difficile, potrebbero polemizzare alcuni, essendo che i personaggi di Longlegs si contano sulle dita di una mano – ai due già citati aggiungiamo la madre della protagonista Ruth (Alicia Witt), l’agente speciale FBI Carter (Blair Underwood), una brevissima parte riservata a Kiernan Shipka che torna a collaborare con Perkins dopo February – L’innocenza del male e praticamente siamo al completo. Infatti, sebbene Longlegs sia molto più semplice di quel che ci si potrebbe aspettare, la semplicità a volte premia, perché citando ancora il blockbuster spielberghiano – che comunque, non dimentichiamo, è un horror – il film di Perkins si pone come un perfetto esempio di thriller-horror high concept: un’unica idea, forte, chiara, accattivante, che deve permeare ogni aspetto del film, dall’impianto estetico al tema narrativo (tornando alla locandina: il viso di Cage che diventa un tutt’uno con l’immagine è una dichiarazione d’intenti), diventando il fulcro attorno a cui ruota l’attenzione dello spettatore. Allora Longlegs potrebbe anche mettere in crisi alcune categorie come quella di blockbuster, perché forse, a uno sguardo attento, non è chiaro quanto sia labile il confine tra blockbuster e fenomeno virale (ricordiamo gli incassi stratosferici sopracitati). Tutto in Longlegs è teso a valorizzare Cage, che vende il film già di principio per il solo fatto di avere la sua presenza all’interno, e non si tratta soltanto di fare analisi di mercato, perché tralasciando il paratesto (il materiale promozionale) Longlegs raggiunge il suo obiettivo, quello di avere un’idea solida alla base che porta avanti con grande coerenza e consapevolezza, anche nella forma, dove alterna il 4:3 dei flashback al 16:9 del presente.

E poi, perché no, Longlegs non perde comunque l’occasione di raccontarci un retroterra americano dove l’Oregon, con i suoi fitti boschi interrotti solo da piccoli e sperduti nuclei cittadini e dalla storia intrisa di folklore, è un setting perfetto per il disagio mentale a sfondo esoterico. La parte investigativa è al servizio dell’anima orrorifica ed è in quest’ultima che Perkins vince, andando dritto al punto proprio grazie ai toni disperati che sfiorano la maniera – è vero – ma che permettono sin da subito di mettere in chiaro come, in queste sparute comunità dove se guardi davvero in faccia la realtà non puoi fidarti dei tuoi colleghi e nemmeno dei tuoi familiari – con maternità ossessive e perverse dove le figlie sono sostituite da bambole per cristallizzarne l’innocenza -, in queste lande sperdute non c’era salvezza prima, non c’è salvezza ora, e mai ci sarà. Perkins è un bravo regista di mestiere, sa quello che fa, sa anche come metterlo in scena, e in tempi in cui nelle sale c’è la stupidissima lapide dell’horror fast food che porta il nome tremebondo di Terrifier 3, bisogna chiedersi, perché rifiutare Longlegs?

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.