Un’automobile che è la sola ambientazione del film, un solo personaggio che diventa sineddoche della solitudine che attraversa tutta la società.

Locke è il secondo cortometraggio scritto e diretto da Steven Knight (sceneggiatore e creatore di Peaky Blinders). Un film indipendente del 2013 costato poco meno di due milioni di dollari, che fin dai primi trailer ha catturato l’attenzione per la sua premessa fulminante: la presenza di un solo attore in scena (Tom Hardy nel ruolo dell’eponimo Locke), ripreso per tutto il tempo all’interno di una automobile. Nonostante l’originalità, soprattutto in un’epoca di blockbuster e grandi produzioni, quest’idea rischiava di essere una lama a doppio taglio.

L’idea di un kammerspiel all’ennesima potenza, di un dramma ridotto all’osso in termini di ambientazioni e personaggi (a parte Tom Hardy, il cast è presente solo come voci al telefono) rischiava di risultare solo un esercizio di stile. Per mantenere alto l’interesse era necessario che la regia, il montaggio e l’interpretazione principale fossero in grado di reggere un meccanismo drammatico così stringato, ma il motivo per cui siamo qui a parlarne è proprio perché la combinazione di questi elementi funziona alla perfezione ed è in grado di mantenere alta l’attenzione per tutti i suoi 85 minuti.

Ivan Locke è un uomo serio, un capocantiere che ha gestito la propria vita all’insegna della precisione e della correttezza nei confronti di famiglia e colleghi. La sua vita integerrima crolla quando riceve la notizia che una collega, ammalata di solitudine come lui, sta per partorire il figlio avuto a seguito dell’incontro di una notte con lui. Oltre al crollo del suo matrimonio, a seguito di questa rivelazione Locke è costretto ad affrontare difficoltà burocratiche in vista di un’importantissima giornata di lavoro a cui non potrà essere presente.

Quello messo in scena da Steven Knight è un thriller dell’ordinario: la posta in gioco è di proporzioni relative, il viaggio dura un’ora e mezza su un’autostrada per Londra, non c’è un antagonista (almeno, non nel senso più canonico del termine), il protagonista non compie azioni straordinarie. Le conseguenze di questa odissea notturna ricadono tutte sulla psicologia del personaggio, sul suo rispetto di sé come persona: Locke è un eroe tragico “quotidiano” che sacrifica la vita che ha costruito per fare la cosa giusta, pur sapendo ciò che gli costerà in termini personali e professionali. L’antagonista (o l’insieme di antagonisti) del film, se c’è, è incorporeo ancora più delle voci al telefono con cui Locke dialoga: il padre morto con cui Locke immagina di conversare e sul quale scarica tutta la sua amarezza, le aspettative di una società cinica e votata solo al profitto, pronta ad abbandonarlo non appena devia dalla “retta” via, le sue stesse nevrosi.

Locke è un film dall’impianto teatrale che però non esclude la specificità del medium per il quale è stato creato, anzi: il rapporto tra uomo e società viene sottolineato proprio dalla tecnica cinematografica spontanea e con pochi fronzoli.

Ivan Locke viene pedinato da una macchina da presa nervosa, e il montaggio (di Justine Wright) oscilla in modo inquieto tra il dramma individuale nella macchina e le panoramiche di autostrade e paesaggi urbani, in cui si consumano forse tanti altri drammi simili che lo spettatore non può vedere. Le riprese, effettuate nel corso di sole otto notti – con le chiamate “in diretta” del resto del cast – sono spesso sfocate per rendere la stanchezza fisica e psicologica del protagonista, mentre le luci di lampioni e fari sono riflessi lontani e confusi che impediscono l’orientamento.

Nonostante il lato tecnico e la scrittura siano entrambi ottimi, questo è ovviamente il film di Tom Hardy. L’attore britannico è noto per la sua capacità di calarsi nel personaggio con tutto sé stesso con il rischio di sfociare nell’overacting, ma in questo caso ha trovato la combinazione perfetta tra attore e personaggio: pur concedendosi a qualche sporadico virtuosismo, per la maggior parte del tempo lascia trasparire tutta l’umanità del suo Ivan Locke e resta sempre al servizio del personaggio, risultando per questo ancora più magnetico e veritiero.

Locke è un piccolo film ma ricco di attenzione ai dettagli e alla psicologia del suo eroe e, al netto di diverse forzature drammatiche e di alcuni eccessi – le battute melodrammatiche riservate alla moglie, per esempio, si incastrano male nel realismo dei dialoghi -, è un film teso e dritto al punto, anche grazie alla sua essenzialità. 

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Valentino Feltrin, Redattore