Dopo oltre un anno dalla sua presentazione alla 76° edizione del festival di Cannes, arriva nelle sale italiane L’innocenza (titolo internazionale Monster), l’ultimo film di Hirokazu Kore’eda, che torna in Giappone dopo le esperienze in Francia e Corea del Sud. Il film riprende alcuni dei temi caratteristici della poetica dell’autore, arricchiti però dalla sceneggiatura di Yuji Sakamoto, che introduce variazioni interessanti e ben integrate con lo stile di Kore’eda.
Strutturato in tre macro segmenti, ciascuno dei quali offre un diverso punto di vista sulla stessa vicenda, L’innocenza sembra quasi essere un moderno Rashomon. Al centro della storia c’è Minato Mugino, un bambino di quinta elementare che comincia a mostrare strani comportamenti, destando la preoccupazione della madre Saori, interpretata da Sakura Ando, già nota per il film Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’Oro nel 2018. I tentativi di Saori di comunicare con il figlio si rivelano infruttuosi, e solo quando Minato menziona il maestro Hori come possibile causa del disagio, la madre si precipita a scuola per risolvere un problema di cui, però, sa ben poco. L’insegnante, tuttavia, afferma che i problemi sono dovuti ad alcuni episodi di bullismo da parte di Minato ai danni di Yori, un bambino della stessa classe, alimentando l’incertezza e riportando lo spettatore a brancolare nel buio.
Kore’eda ci chiede fin da subito di stare al suo gioco, di accettare la nostra condizione di spettatori ignari e di affidarci alla messa in scena. Il patto implicito è quello di assecondare le sue manipolazioni, accumulando informazioni e suggestioni che presto o tardi potrebbero rivelarsi false. Il film invita a un’immedesimazione totale, e di riporre piena fiducia nel regista, che ci spinge a riflettere insieme ai personaggi all’interno di un impianto narrativo perfettamente costruito, dal ritmo lento ma scandito da un’impeccabile controllo dei meccanismi per creare tensione. Lontano da un cinema superficialmente ludico, ogni elemento che emerge dal racconto è reale fino a quando non viene contraddetto dal successivo, bugie e falsità sono quindi i presupposti ideologici e analitici dell’intero film, oltre che narrativi.
Conosciamo bene Kore’eda e il suo interesse verso personaggi che vivono ai margini delle convenzioni sociali e che spesso agiscono al di là della moralità comune. In questo senso, la sceneggiatura di L’innocenza si dimostra particolarmente solida: nessun personaggio mente per innata cattiveria – talvolta c’è chi mente senza saperlo – ma piuttosto per ragioni che affondano nelle loro convinzioni personali e nel sistema di valori che li circonda.
Film come Un affare di famiglia e Broker, esplorano l’umanità di criminali e fuorilegge, riuscendo a far empatizzare lo spettatore con essi attraverso lo sguardo analitico del regista, il quale esalta la complessità dei comportamenti umani evitando prese di posizione e conclusioni affrettate. In L’innocenza, la frammentazione del racconto non solo consente di mettere in atto strategie efficaci per creare tensione e mantenere alta l’attenzione del pubblico nella continua ricerca di una verità che sfugge ogni volta che sembra a portata di mano, ma permette anche di rappresentare i personaggi con grande profondità. È attraverso il continuo gioco di campi e controcampi, di accuse, scuse, giustificazioni e prese di coscienza che i personaggi si rivelano nella loro complessità.
Nelle prime due prospettive, quella di Saori e del maestro Hori, emerge chiaramente la divisione tra la dimensione dei bambini e quella degli adulti, decretata dalla loro comprensibile ossessione di scoprire cos’è realmente successo. Gli adulti, intrappolati in convenzioni sociali e abitudini spesso prive di logica, appaiono incapaci di affrontare i problemi alla radice, come nella surreale sequenza del colloquio tra Saori e gli insegnanti, dove questi si inchinano e si scusano meccanicamente.
È l’incapacità degli adulti di affrontare i problemi che, oltre a turbare profondamente Minato, il cui comportamento diventa sempre più incomprensibile, enfatizza la frattura tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, spinti a ritirarsi in un mondo tutto loro, in cui una bizzarra teoria sull’implosione dell’universo e di una successiva rinascita diventa per loro la speranza di un miglioramento.
Da un lato ci sono adulti che se non cercano ossessivamente la verità per avere giustizia e redenzione, soffiano via i problemi nel tentativo di dimenticarli e di alleggerirsi la coscienza; dall’altro, c’è un incontenibile impulso alla vita che, tuttavia, si trasforma in angoscia quando si scontra con i limiti imposti dall’ordine più tradizionale del vivere comune. È questo che causa la sofferenza così intensa di Minato: schiacciato dal senso di inadeguatezza e dall’incapacità di comprendere se stesso, si lascia andare alla depressione e scatti d’ira.
Il confronto tra Minato e la preside è una sequenza cruciale, non solo per i suoi risvolti narrativi, ma perché rafforza ulteriormente le convinzioni del regista. Conferendo a un personaggio così controverso un ruolo determinante nell’elaborazione della crisi, Kore’eda ribadisce la volontà di nobilitare ogni personaggio, purché risulti in continuità con il discorso generale del film. Suonare uno strumento a fiato, ad esempio, può essere inteso come un gesto liberatorio, un vano tentativo di sfuggire al problema e alleggerirsi la coscienza, o come un modo alternativo di esprimere ciò che si prova quando è difficile farlo a parole. Ci si libera così dall’angoscia che blocca, dal timore dei pregiudizi, e si riesce a guardare il problema da una prospettiva diversa, e quello che sembrava renderci mostri si rivela essere, in realtà, un desiderio e un bisogno da perseguire con tutte le forze, prima che una tempesta arrivi e decretando la fine dell’universo.
Il buio che avvolge la verità, quindi, non può essere ignorato: esiste per un motivo e deve essere affrontato se si vuole scoprire la realtà delle cose. E, una volta superata l’oscurità e placata la tempesta, anche se ci si ritrova spaesati e ricoperti di fango, ci si sente rinati, ma grati di essere sempre sé stessi, solo un po’ più consapevoli.
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