Tra le saghe videoludiche più longeve, Yakuza – il cui titolo mutò poi negli anni in Like A Dragon – gioca senz’altro un ruolo di spicco: partita nel 2005 con il primo capitolo su PlayStation 2, prosegue poi fino ad oggi contando all’attivo diciannove titoli tra principali e spin-off di vario tipo, raccontando una storia in continua espansione popolata da personaggi che una vasta porzione di pubblico – principalmente asiatico – ha imparato negli anni ad amare. Non è infatti difficile legarsi a personaggi come Kazuma, Goro, Ichi, Takayuki data la forte impronta narrativa che i giochi portano avanti: da un lato infatti i combattimenti giocano un ruolo fondamentale assieme all’esplorazione di porzioni di mappe sempre più ampie, ma al tempo stesso una grande quantità di tempo viene speso nel dialogare con una immensa pletora di personaggi (più o meno) secondari e nel vedere cutscene curatissime che evolvono continuamente la narrazione.
All’annuncio di un adattamento, le aspettative si fanno quindi abbastanza alte: Takashi Miike già aveva tentato un’operazione di questo tipo con il suo Yakuza: Like A Dragon nel 2007, pellicola ben accolta dai fan per le numerose citazioni ma poco comprensibile per i neofiti, decretandone così il relativo insuccesso – tanto che ad oggi il film è praticamente introvabile; che potesse quindi essere questa l’occasione giusta per dare ulteriore lustro e ulteriore fama alla saga, soprattutto al di fuori del Sol Levante?
Il dragone e la carpa
Saltando dal letto del fiume, cercarono di raggiungere la cima della cascata senza riuscirci. I loro sforzi attirarono l’attenzione di un demone locale, che derise i loro sforzi e intensificò la forza della cascata a causa della sua malignità. Dopo aver saltato per cent’anni, una carpa raggiunse la cima della cascata. Gli Dei riconobbero la sua perseveranza e la sua determinazione e la trasformarono in un dragone dorato, un’immagine di potere e forza.
Un’antica leggenda cinese
La serie si divide tra due archi narrativi: nel 1995 seguiamo le vicende del quartetto formato da Kazuma, Yumi, Nishiki e la sorella Miho nel loro tentativo di fuggire dall’orfanotrofio e rifarsi una vita portando a termine un colpo, finendo però inevitabilmente nel mirino dei Dojima, una potente famiglia della Yakuza; parallelamente nel 2005 vediamo Kazuma uscire di galera, con addosso il titolo di “Ammazza-boss” e costretto a destreggiarsi tra il desiderio di abbandonare la vita criminale e l’aiutare i vecchi amici.
Questa struttura di salto tra presente e passato l’abbiamo di certo già vista in numerose produzioni – Lost su tutte in questo ha fatto inevitabilmente storia – ma in questo caso le modalità in cui il prodotto decide di mettere in scena l’alternanza non seguono uno schema ben preciso: si passa infatti da episodi come Ambition/Desire in cui le vicende del 2005 riguardano un minutaggio decisamente esiguo rispetto alla centralità di quelle del ’95 ed altri in cui si verifica l’esatto opposto. Se da un lato ciò permetterebbe idealmente di concentrarsi su quanto in quel momento necessita più attenzione, bisogna ammettere come ciò finisca per creare un ritmo discontinuo in cui – complice anche la decisione di spezzare l’uscita degli episodi in due tronconi distinti da tre episodi l’uno – lo spettatore fatica a raccapezzarsi sulle vicende. La serie infatti mette in scena numerosi personaggi, ognuno con il proprio nome, ruolo e titolo più o meno centrali alle vicende, ma che necessitano comunque un forte sforzo mnemonico per essere ricordati, azione complicata ulteriormente dai continui salti temporali.
Blocco note alla mano per scriversi nomi e titoli ed ovviare quindi a questo problema, la serie presenta in realtà una struttura abbastanza semplice: il ’95 funge infatti da spiegazione su come i personaggi abbiano costruito i propri legami con la Yakuza e come si arrivi alla conseguente morte del boss, mentre il 2005 segue l’indagine personale di Kazuma su una serie di omicidi nell’ambiente criminale e sul furto del fondo delle famiglie della Yakuza. Proprio relativamente alla quantità di tempo dedicata ai rispettivi archi narrativi, le vicende della “formazione” dei protagonisti sembrano occupare molto più del tempo necessario, soffermandosi su numerosi momenti di certo interessanti ma che sarebbero potuti al tempo stesso essere ridotti, così da dare più spazio alle ben più interessanti vicende del 2005. Questo perché, soffermandosi proprio su quest’ultime, la sceneggiatura spara le sue cartucce migliori, con un susseguirsi di vicende interessanti, ricche di sfumature ed intrighi capaci di mantenere alta la tensione e permettere allo spettatore di avanzare con interesse nella visione.
The game was rigged from the start
Elemento inevitabile in fase di analisi è la relazione con il materiale originale. Da una parte abbiamo infatti nomi, outfit, location, addirittura mosse di combattimento identici a quanto visto nel gioco, dall’altra però abbiamo la volontà di adattare la storia con grande libertà, ritrovandosi di fronte ad un adattamento più vicino a quanto visto in Halo piuttosto che ad una blasonata prima stagione di The Last Of Us. Se l’omicidio del boss ed il successivo furto del fondo della Yakuza sono difatti il medesimo punto di partenza, il gioco riduce le vicende del 1995 al mero incipit proiettandosi poi interamente nel 2005 dove, nell’arco delle circa 15 ore di durata, viene messo in scena un crime drama in cui si alternano momenti ricchi di azione e tensione ad altri più emotivi. Il giocatore riesci così a legarsi in primis a Kazuma, ma anche ai tutti gli altri personaggi di cui conosce così carattere e motivazioni costruendo una fitta trama di relazioni che si intreccia, ovviamente, con la linea narrativa principale.
Proprio qui sta il più grande problema della serie: il grottesco e l’assurdo che caratterizzano l’intero gioco sono qui stati completamente eliminati, non comprendendo che fossero proprio ciò che portava lustro e memorabilità a quanto messo in scena. I continui tentativi di Goro di irritare Kazuma per spingerlo a combattere aiutano a delineare un personaggio consumato dalla brama del combattimento, così come il correre per la città alla ricerca del giusto cibo per cani o l’accompagnare un turista americano per locali dimostrava, nella sua assurdità, come Kazuma fosse un qualcosa di più di un semplice criminale, a cui poi si aggiungevano gli assurdi combattimenti contro decine di nemici che permettevano di sviluppare un’idolatria verso un personaggio tutt’altro che dimenticabile. Tutto questo nella serie viene invece asciugato e ridotto – forse per necessità di tempo o forse per voler dare un senso di cupezza maggiore alle vicende – finendo però per creare una narrazione composta da tanti momenti posti frettolosamente in successione con personaggi che entrano ed escono di scena con una velocità disarmante.
A poco servono quindi le buone prove attoriali, il curato aspetto tecnico – soprattutto nella fotografia di alcune sequenze – oppure le ottime coreografie a fronte di una storia che, al di là dei vari cambiamenti più o meno funzionali, si prende eccessivamente sul serio e che finisce così per portare sullo schermo diversi momenti del videogioco senza quella magia che li ha sempre contraddistinti e rendendoli, perciò, dimenticabili.
Conclusioni
Già arrivato in sordina, Like A Dragon: Yakuza sembra essere uno di quei prodotti destinati in partenza all’oblio: la decisione infatti di adattare con molta libertà le vicende del videogioco eliminando completamente ogni elemento grottesco o sopra le righi porta la narrazione a procedere come con il pilota automatico, non inciampando in grossolani errori fastidiosi ma non riuscendo mai a creare momenti degni di nota. Purtroppo nemmeno un buon cast, un ottimo aspetto tecnico e delle ottime coreografie riusciranno a salvare questa serie, incapace di scorgere la giusta strada da percorrere, quasi come il drago senza occhi sulla schiena del protagonista.
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