Quando ero giovane, nel sud della California c’era una catena di negozi di dischi chiamata Licorice Pizza. Mi sembrava qualcosa in grado di cogliere il sentimento del film nel suo complesso. Immagino che, qualora non venga colto il riferimento al negozio, siano comunque due parole che stanno bene insieme e, forse, catturano uno stato d’animo.
– Paul Thomas Anderson sulla scelta del titolo Licorice Pizza
California, petrolio e amore. Tre addendi chiave in Licorice Pizza e non nuovi nel cinema del cinquantunenne Paul Thomas Anderson che, a partire dal 1996, si è imposto come uno dei maestri del cinema contemporaneo. Erede ideale di Robert Altman, Anderson recupera dai titani della Nuova Hollywood l’ambizione smisurata di creare esperienze cinematografiche totalizzanti, che travolgano lo spettatore fotogramma dopo fotogramma e lo riportino a credere nella figura del regista-demiurgo, in grado di far vivere un mondo sul grande schermo. Non importa se stia raccontando le gesta del tracotante pioniere Daniel Plainview, un grande melodramma sentimentale o un lieve romanzo di formazione in cui boy meets girl: la sua grandeur stilistica non ha un genere di riferimento e dona a qualsiasi storia l’afflato dell’epicità.
Ambientato nei primi anni ‘70 nella San Fernando Valley, Licorice Pizza racconta l’incontro tra l’attore quindicenne Gary Valentine (Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour) e la venticinquenne ebrea Alana Kane (la cantante Alana Haim). Dopo qualche tentativo di seduzione spudorata da parte di lui, i due diventano amici, si lanciano nel business dei materassi ad acqua e, barcamenandosi tra le turbolenze dei seventies e del loro rapporto, indagano la natura del sentimento che li lega.
Anderson mette in scena il suo Bildungsroman con un armamentario visivo di straordinaria ricchezza: il formato panoramico e il diffuso utilizzo del grandangolo danno vita a immagini ampie e ariose, sorprendentemente funzionali anche in un film ambientato principalmente in interni e in cui abbondano i primi e primissimi piani, grazie ai quali i volti raggiungono spesso proporzioni mastodontiche. Girato in pellicola 35mm e magistralmente fotografato, utilizzando vecchie lenti anni ‘70, dal regista insieme a Michael Bauman, Licorice Pizza è un tripudio di carrelli fluidissimi, complessi piani sequenza e movimenti di macchina di precisione millimetrica, che scandiscono i tempi della narrazione e della commedia (si ride molto). Non è, come qualcuno ha scritto, un Paul Thomas Anderson sotto le righe, più trattenuto del solito: il regista non si lascia alle spalle nulla della propria maestosità stilistica, bensì la adatta a una storia relativamente “piccola”, che è però al centro di un film che ambisce a raccontare un periodo – storico e anagrafico –, il suo spirito e il suo sentimento.
Licorice Pizza, in questo senso, è puro cinema, capace di trasportare, come una madeleine proustiana, in una dimensione altra rispetto alla realtà, dominandoci con l’immensità delle sue immagini ed evocando i seventies come età d’oro di ricordi, sogni, illusioni e gioventù. Anderson compie una raffinata operazione di world building, che è realizzata sì con scenografie e costumi di altissimo livello e con la straordinaria colonna sonora che, oltre alle musiche originali di Jonny Greenwood, comprende canzoni di David Bowie, Paul McCartney, Sonny Bono e tanti altri, ma soprattutto con la vivida evocazione del mood di un’epoca. Il film è attraversato da una levità che è solo apparenza, continuamente spezzata dalle avvisaglie dei traumi americani in fieri: dall’imminente scandalo Watergate alle ultimi propaggini della Guerra del Vietnam, dalla crisi energetica del ‘73, figlia della Guerra del Kippur, al clima di inquietudine e paranoia degli anni a venire, i cui prodromi sono ben espressi dalla sequenza dell’arresto di Gary e dall’angosciante presenza dell’individuo che segue il consigliere Joel Wachs e pare uscito direttamente da Taxi Driver (solo uno dei tanti riferimenti al cinema classico e settantesco americano: mai semplici citazioni, ma vere e proprie riattualizzazioni e riletture). Anderson evoca dunque lo Zeitgeist e lo pone a cornice dello stato d’animo di tenero entusiasmo giovanile che domina la linea narrativa principale.
Tra una scena cult e l’altra (indimenticabili le sequenze con Tom Waits, Sean Penn e Bradley Cooper, ma anche l’epopea col furgone in retromarcia a motore spento e il colloquio di Alana con la talent scout Mary Grady), infatti, Licorice Pizza è anzitutto un racconto sentimentale che si bea della colta e divertita sceneggiatura di Anderson e della straordinaria chimica tra i due protagonisti esordienti. Alana Haim e Cooper Hoffman sono due talenti adamantini, che trovano momenti di verità nei propri personaggi e animano un coming-of-age movie in cui ciò che conta non è tanto “crescere”, bensì incontrare nell’altro il riconoscimento (e l’accettazione) di ciò che si è diventati: non a caso, nella prima scena, Gary si guarda in uno specchio retto in mano da Alana, lei tiene in mano il suo riflesso.
Per tutto il film il rapporto tra i due protagonisti si sviluppa secondo dinamiche per la cui descrizione manca un vocabolo soddisfacente e i due ragazzi divengono anche il simbolo di una generazione che sempre meno riesce a comunicare con le precedenti. Gli adulti, nel film, sono caricature grottesche, che non riescono mai a entrare realmente in relazione con i più giovani: Alana prova a rifugiarsi tra le braccia del Jack Holden di Sean Penn, in cui spera di trovare un uomo maturo, ma non riesce a comunicare con lui perché egli parla solo per citazioni dei propri ruoli cinematografici; Gary prova a dialogare con il Jon Peters di Bradley Cooper, ma non riesce nemmeno a pronunciare in maniera soddisfacente il cognome della sua compagna di allora, Barbra Streisand. Ai due giovani, invece, basta il silenzio per dirsi tutto: la memorabile scena della telefonata muta esprime tutta la densità di ciò che Alana e Gary condividono. E questa condivisione giunge al suo culmine in una corsa che ha il sapore di un’epifania, che ha luogo sotto l’egida di Vivi e lascia morire, primo James Bond di Roger Moore, rivoluzione epocale di una saga i cui cambi di protagonista scandiscono le nostre vite e i nostri amori.
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