Quando, in maniera quasi ciclica, ci si ritrova davanti a qualche articolo o al trailer di annuncio di un nuovo film horror il cui focus principale è l’esorcismo arriva inesorabile come la spada di Damocle la domanda: “ma ne avevamo bisogno?”.
Con L’esorcista, la pellicola capolavoro di William Friedkin uscita nel 1973, è nato uno dei sottogeneri forse più floridi del cinema horror, capace di generare in questi cinquant’anni decine di pellicole, alle quali vanno aggiunte quelle in arrivo nel prossimo futuro e il remake dell’originale prodotto da Jason Blum e affidato alla regia di David Gordon Green (già regista della recente trilogia di Halloween). Al tempo stesso però nella moltitudine di pellicole di questo sottogenere nella maggior parte dei casi ci si ritrova davanti a pellicole derivative, che prendono gli elementi che fecero de L’esorcista un lavoro riuscito e li ripropongono, in alcuni casi con qualche minimo cambiamento o variazione e altre volte in maniera completamente identica, perdendo però l’anima del progetto e creando così pellicole che vengono dimenticate quasi istantaneamente.
Da poco reduci da Gli occhi del Diavolo, pellicola che presentava interessanti elementi di riflessione in un guscio narrativo e visivo ben troppo conosciuto, la domanda posta in cima torna nuovamente a farsi sentire in seguito all’uscita nelle sale di L’esorcista del Papa. Qualcosa all’interno del film è però diverso, variato rispetto al modello di base: ma sarà bastato per rendere la pellicola degna di visione e sopra la media dei suoi prodotti gemelli?
Un’esorcista in Vespa
Un elemento che può confondere è fin da subito il protagonista del film. L’ispirazione per le vicende raccontate viene infatti da Un esorcista racconta e Nuovi racconti di un esorcista scritti da Padre Gabriele Amorth, capo esorcista della diocesi di Roma dal 1986 al 2016, la cui figura viene inoltre presa in prestito per il ruolo di protagonista del film. È però importante sottolineare come la storia raccontata dal film, nonostante gli elementi “reali” di ispirazione, sia completamente inventata dagli sceneggiatori Michael Petroni e Evan Spiliotopoulos.
Ci si ritrova quindi negli anni ’80 a seguire un esorcismo a Tropea su un giovane ragazzo che riesce a parlare in inglese, per poi spostarsi in Vaticano, dove l’esorcista viene sottoposto a un piccolo processo da parte degli arcivescovi per non aver seguito le regole dettate dalla Chiesa e incontra il Papa che gli affida un nuovo caso su cui indagare. Padre Amorth sale quindi a bordo della sua Vespa – con tanto di stemma della Ferrari – e si reca quindi in Spagna, dove un bambino sembra essere vittima di un demonio ma al tempo stesso di un complotto segreto in cui è coinvolto anche il Vaticano stesso.
Fin dai primi venti minuti di film – della modesta durata di 103 minuti complessivi – risulta ben chiaro come l’intento della pellicola non sia quello di mettere in scena un racconto cupo e dai toni seri e pesanti come faceva il capostipite del genere, quanto più quello di costruire un’atmosfera quasi sopra le righe, con un Padre Amorth leggero e scherzoso – interpretato da un Russel Crowe decisamente in parte, tanto da aver recitato molte scene in italiano e aver inserito un accento alla sua parlata inglese nelle scene successive – che concatena una battuta dietro l’altra allontanandosi dal modello di Padre Lankester Merrin e avvicinandosi di più a un protagonista da cinecomic, dal traumatico passato ma sempre pronto all’azione e al mettersi in gioco. Se a questo aggiungiamo battute come “Parlatene con il mio capo” riferendosi al Papa, “Un caffelatte alle 10:30 del mattino, sorella?” o il viaggiare in lungo e in largo in abito talare a bordo della sua vespa, ci si rende conto fin da subito che quello che si vuole proporre è una pellicola che in primis decide di non prendersi sul serio.
Tra La Casa e Il codice Da Vinci
Questo non significa che il racconto rinunci all’horror, la decisione è piuttosto quella di metterlo in scena in maniera meno convenzionale. Il ragazzino posseduto – ottimamente interpretato da un giovanissimo Peter DeSouza-Feighoney – piuttosto che a una Regan McNeil verrebbe da associarlo infatti ai Deadites, i posseduti dal Necronomicon de La Casa, in quanto la violenza verbale utilizzata mischia le classiche offese con affronti personali che scadono facilmente nell’eccesso e che finiscono così per generare un continuo elemento quasi di dark humor. A questo si aggiunge la regia di Julius Avery – già regista della piccola perla Overlord del 2018 – che impreziosisce le sequenze con apprezzabili movimenti di macchina e un paio di interessanti piani sequenza che ricordano quanto fatto da James Wan con il suo The Conjuring e una buona fotografia a cura di Khalid Mohtaseb che riesce a giocare bene con le luci e le ombre nella gotica cattedrale in cui si svolge buona parte della pellicola.
Ulteriore elemento di ibridazione è l’inserimento del “mistero”, che sembra avvicinare la pellicola a racconti come Il codice da Vinci o X-Files, introdotto già dai primi minuti con la consegna del caso da parte del Papa – portato in scena da un fantastico Franco Nero che sembra quasi più un direttore dell’FBI piuttosto che il Santo Padre – e che poi continua con l’esplorazione di catacombe, prigioni sotterranee e libri censurati. Non mancano di certo però gli elementi più classici di queste pellicole, come la presenza del giovane sacerdote dal passato turbolento o l’esorcismo finale, con i classici versi latini ripetuti a squarcia gola, i posseduti che cominciano a contorcersi e ad arrampicarsi sulle pareti e l’utilizzo forzato di computer grafica per deformare i visi dei personaggi, che si presenta però come un elemento del racconto inserito quasi a forza, come se si fosse vista la necessità per far tornare la pellicola sui binari prescritti del genere arrivando così però alla messa in scena di alcune sequenze che sembrano prendersi fin troppo sul serio e che viaggiano verso un finale un po’ troppo tradizionale e stereotipato, salvato parzialmente dagli ultimissimi minuti dello scontro in cui sembra tornare l’eccesso e l’anima del b-movie.
Conclusioni
L’esorcista del Papa è una pellicola che si inserisce in un sottogenere decisamente fitto di pellicole ripetitive e fin troppo simili e dalle quali decide di distinguersi guardando indietro, sia nell’ambientare la storia nei mirabolanti anni ’80 sia nel prendere come ispirazione lo stile di narrazione dei b-movie anni ’70 e ’80. Questo comporta la messa in scena di personaggi stereotipati accompagnati da un protagonista decisamente atipico per questo tipo di storie, che tra un esorcismo e l’altro si barcamena tra battute sarcastiche, bottigliette di whiskey e l’esplorazione di catacombe dell’inquisizione spagnola.
Un film bizzarro, che può stranire e confondere molti spettatori, scontentando al tempo stesso sia chi cercava l’horror puro sia chi cercava una completa rivoluzione o uno stravolgimento dei canoni. Se si è però disposti ad accettare la sua natura chimerica e a mettersi il cuore in pace, il film riuscirà sicuramente a strappare più di una risata e a divertire.
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