Dopo esattamente dieci anni dallo shakespeariano Cesare deve morire, Paolo Taviani torna al Festival Internazionale di Berlino ma, questa volta, senza il caro fratello Vittorio.
“Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. […] Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.”
Queste le ultime parole testamentarie di Luigi Pirandello.
Pirandello: trentotto anni dopo Kaos (1984), il regista – qui, purtroppo, in veste solitaria – torna sull’autore siciliano non più limitandosi a prendere in prestito le sue novelle, ma con un trattato grottesco e riflessivo sulla (sua) morte. Dopo un filmato d’archivio della consegna del Nobel per la letteratura nel 1934, permane il bianco e nero per trovare lo scrittore a letto poco prima della sua scomparsa, in una camera dai contorni tanto stilizzati quanto (quasi) metafisici; si avvicinano pian piano i suoi tre figli, dapprima infanti ma sempre più maturi ad ogni passo. Pirandello morirà dopo che anch’essi saranno invecchiati, prima che riescano a dargli il sentito addio. Bisogna rispettare il volere del poeta: la sua urna cineraria deve essere trasportata da Roma ad Agrigento, ma qui sorgono gli imprevisti di percorso: l’aereo non può partire per la scaramanzia dei passeggeri e del pilota che non vogliono viaggiare con un morto a bordo. Spostata su un treno, la cassa contenente l’urna viene rubata e usata come campo da gioco per una partita di tresette. Recuperate le ceneri, il prete non vuole benedirle perché l’urna è greca (pagana), potrà farlo solo se inserita all’interno di una bara per bambini, derisa poi dai cittadini perché simile a quella contenente un nano. Giunte le ceneri in Sicilia, passeranno quindici anni prima che possano finalmente essere sepolte nella rozza pietra, e nemmeno tutte: l’urna finale è troppo piccola, bisogna lasciarne fuori un po’. A questo punto, lo schermo si colorisce a piccoli passi e veniamo catapultati a Brooklyn, dove nella trasposizione de la novella Il chiodo viene tolta la vita a una ragazzina, per mano del chiodo arrugginito del giovane immigrato siciliano Bastianeddu.
Il protagonista, interpretato da Fabrizio Ferracane, con le ceneri di Pirandello
Amare e meste, le parole testamentarie di Pirandello, ma in fin dei conti anche umili e sincere. Parole del Premio Nobel per la letteratura che, in letto di morte, rigetterà la celebrazione delle sue esequie preferendo una dipartita solitaria, appartata e silenziosa.
Perché? Dove sta il senso? Proprio queste sono le domande alla base del film che Paolo Taviani, raggiunta la veneranda età di novant’anni, firma con estrema lucidità in onore del fratello Vittorio, venuto a mancare nell’aprile 2018.
Perché? Se lo sente ripetere molte volte Bastianeddu. Perché la morte? E la vita vissuta? Perché uno dei più illustri letterati d’Italia avrebbe scelto delle onoranze funebri così scarne e insignificanti? Perché il giovane immigrato ha ucciso la ragazzina senza alcuna motivazione? La risposta di Taviani, per voce di Pirandello, è grottesca – così come l’intero film: “nella vita, il dolce della gloria non può compensare l’amaro di quanto è costata“.
La novella “Il chiodo”
Ecco allora che Leonora addio – titolo che riprende l’omonima novella del drammaturgo siciliano a cui i Taviani si erano già avvicinati con il già citato Kaos – assume le forme di un requiem pirandelliano: una tragicomica riflessione sulla morte, sul cinema italiano – sprazzi de Il sole sorge ancora (1946), Paisà (1946), Estate violenta (1959), L’avventura (1960) – e sull’insensatezza del vivere.
Il canto del cigno stanco di esistere, ma cosciente di quanto in realtà valga la vita, quella che per Taviani è completa simbiosi con l’arte cinematografica del passato, cui di diritto compongono un (non piccolo) tassello anche le opere sue e del fratello. Un canto che, tuttavia, a novant’anni non accenna ad esaurirsi, visto l’acume con cui è stato scritto Leonora addio, opera che chissà, forse assurge a – metaforico e poetico – volere testamentario dello stesso regista.
Le ceneri in partenza da Roma
Taviani ci immerge in un requiem grottesco che è simulacro dell’unico atteggiamento con cui affrontare la morte: ripiegati su sé stessi, certo, ma con la consapevolezza che qualcosa di buono c’è stato. Il film si apre e si chiude con un teatro e gli applausi del pubblico: abbiamo assaporato il dolce di una gloria il cui prezzo non potrà mai essere ricompensato.
Il regista toscano porta a termine una pellicola con la consapevolezza che, probabilmente, oggigiorno non ha un vero e proprio pubblico di riferimento; poco importa: guarderemo sempre con un sorriso nostalgico e malinconico al sentito omaggio al fratello Vittorio, come coronazione e atto d’amore verso una carriera lunga più di cinquant’anni.
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