Più lo cerchi di sopprimere e più tenti di soffocarlo, più lui si rialza forte e vigoroso: il cinema iraniano continua a proliferare stretto dalla morsa dell’oscurantismo governativo, i cui tentativi di repressione sociale e culturale non hanno risparmiato nemmeno Leila e i suoi fratelli, film diretto da Saeed Roustayi e presentato in concorso per la Palma d’oro alla 75a edizione del festival di Cannes (premio incomprensibilmente “estorto” da Triangle of Sadness, ma ha ottenuto il riconoscimento della FIPRESCI) senza aver mai avuto l’approvazione da parte del governo iraniano, che lo scorso giugno ha ufficialmente bandito il film dal Paese. A Cannes presenziava un altro regista iraniano (anche se naturalizzato danese) Ali Abbasi con il suo Holy Spider, girato in Giordania e non in Iran perché non ha mai ricevuto alcuna risposta dal Ministero della cultura iraniano, pur avendo sottoposto la sceneggiatura al suo vaglio.
Risale invece soltanto al 7 febbraio 2023 il rilascio su cauzione del pluripremiato regista iraniano Jafar Panahi, arrestato l’11 luglio 2022 per “propaganda contro il sistema” (pena detentiva che incombeva su di lui dal 2010) e il cui (bellissimo) film metacinematografico Gli orsi non esistono si è aggiudicato lo scorso settembre il Premio speciale della giuria al Lido di Venezia. Sempre alla Mostra di Venezia – pur con risultati cinematograficamente altalenanti – era stata giustamente riservata particolare attenzione alle esigenze del cinema iraniano, dove Beyond the Wall di Vahid Jalilvand (in concorso) e Without Her di Arian Vazirdaftari (in Orizzonti) trasponevano lucidamente questo nefasto clima di oppressione sociale che non accenna ad esaurirsi.
Taraneh Alidoosti è Leila
Ritratto di famiglia in tempesta
Leila e i suoi fratelli è ambientato nell’Iran odierno e narra la storia della quarantenne Leila Jourablou (Taraneh Alidoosti), donna nubile e in cerca di lavoro, forte e coraggiosa al tal punto da voler reggere sulle proprie spalle il peso della famiglia, tentando di avviare un’attività economica che riscatti le sorti del nucleo familiare sommerso dai debiti (nati dalle sanzioni americane contro l’Iran): peccato che l’idea venga ostacolata dall’egoismo del padre dispotico, Esmail (Saeed Poursamimi), la cui lotta per la successione al titolo di Patriarca richiede ingenti quantità di denaro. Queste due visioni della realtà saranno destinate a scontrarsi, portando alla definitiva rottura dei fragili equilibri della famiglia…
Progressismo contro iper-tradizionalismo. Femminismo contro patriarcalismo. Dinamismo contro immobilismo: è una battaglia di “ismi” quella interna alla famiglia Jourablou, perché quella fra padre e figlia è una battaglia fra diverse visioni del mondo, fra inconciliabili approcci alla realtà, quello stesso reale che Leila vuole cercare di cambiare avviando una nuova impresa di famiglia – lei: l’unico personaggio dinamico in mezzo a cinque maschi inerti che altro non sono che un peso da sorreggere (non è un caso che Leila venga presentata mentre si sottopone a una terapia per dolori alla schiena). Il Nuovo che uccide il Vecchio (verrà addirittura suggerito di lasciar morire il padre), un incontro di wrestling verbale e fisico come quello che appare in televisione a inizio film. In effetti non assisteremo mai a un match in un ring, gli alterchi sono sempre verbali, ma uno scontro fisico ci sarà proprio durante la sequenza più iconica, quella di un (lunghissimo) matrimonio da commedia “monicelliana”.
Infatti, se c’è qualcosa a cui assomiglia Leila e i suoi fratelli non è di certo il cinema del regista iraniano contemporaneo più rinomato, Asghar Farhadi, ma nemmeno vuole assomigliargli: i 165 minuti del film di Roustayi – compatti e concisi, senza mai uno di troppo – riportano la nostra mente a una commedia di stampo popolare dove dramma e comicità si intrecciano caparbiamente e intelligentemente (nonostante sia curioso notare come l’espediente di una somma di denaro come motore dell’intreccio, fosse al centro anche dell’ultimo film di Farhadi, Un Eroe). Nella tragicità delle condizioni sociali in cui versa la famiglia Jourablou, fra i subbugli sociali delle lotte operaie e la totale assenza di ascensori sociali per le donne (perfettamente riassunti nei 15 minuti iniziali in montaggio alternato a cui seguono i titoli di testa) troviamo guizzi d’ironia che spezzano il dramma in favore di un clima più leggero, senza tuttavia ostacolare la riflessione sul conflitto generazionale e sociale del Paese.
L’aspirante patriarca Esmail (Saeed Poursamimi) durante il matrimonio
Sguardo a occidente
Conflitti sociali che nascono, soprattutto, da una progressiva occidentalizzazione dell’Iran e dai suoi rapporti dicotomici con l’America, di cui vengono mostrate le due facce della medaglia: da una parte lo Stato, sempre più isolato a causa del peso delle sanzioni americane che gravano sui poveri cittadini (in televisione comparirà persino l’allora presidente Trump: “neanche una bomba farebbe l’effetto di un suo tweet”) e dall’altra i cittadini stessi, che guardano al modello americano del self-made man o, in questo caso, della self-made woman; è proprio Leila, infatti, a tentare la strada farsi da sé, sia all’interno della famiglia (prende a schiaffi il padre-capofamiglia che ha rubato il futuro a tutti i figli: una scena dalla potenza devastante per il contesto produttivo in cui nasce), sia all’esterno, dove cercando il riscatto personale ed economico tramite l’avvio di un nuova attività – di fronte a una mandria di quattro fratelli buoni a nulla (tranne il più sfaccettato e problematico: Alireza) – dissesta e infrange qualsiasi rapporto familiare preordinato e diventa icona femminile indimenticabile.
Non è una rottura priva di dolori, questa della famiglia Jourablou (narrata come fosse un grande romanzo), cambiare è sembre doloroso e in qualche modo, anche se vediamo la luce in fondo al tunnel, dentro al tunnel ci abbiamo vissuto, al suo interno sono germogliati i semi dei tempi migliori: è nella sequenza finale che è racchiuso in nuce l’intero film, in quella danza agrodolce sulle cui note Alireza danza piangendo, giustapponendo gioia e dolore. Leila non danza ma guarda, veglia come ha sempre fatto in famiglia e accenna un sorriso di soddisfazione nel veder ballare il fratello mentre una lacrima le solca il viso. Finalmente il passato può essere messo da parte, ma quanta fatica che è costato il cambiamento.
Gioia e lacrime: il futuro non è certo, il film non ci dà mai risposte univoche e rassicuranti, l’Iran soccombe sotto le sanzioni americane ma internamente sta assimilando i valori prettamente made in USA dell’individualismo e del farsi da sé. Il processo di introiezione dei nuovi ideali che rompono con le tradizioni religiose iraniane (nel film il Sacro è messo completamente da parte) richiede tempo e fatica, ed è Alireza a incarnare maggiormente questa paura del cambiamento, causa primordiale del dissidio interiore che – in una sequenza toccante e profonda – dichiara di lacerarlo da sempre.
Un film potente, tanto di parola quanto di immagini, dove lo schermo è sempre riempito dalla dirompente presenza scenica dei protagonisti che recitano incessantemente dialoghi scritti in punta di penna. Semplicemente meraviglioso. Se ne continuerà a parlare negli anni a venire.

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