In Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, i lamenti spauriti e il pianto strozzato degli agnellini, inermi di fronte alla mattanza, segnavano la psicologia scombussolata e l’eco del trauma infantile dell’agente Clarice Starling: simbolo di quel male del mondo brutalmente in atto sulla purezza innocente, emendato solo in ultimo dal catartico e sospirato silence of the lambs.
In Lamb (Dýrið) dell’esordiente islandese Valdimar Jóhannsson – Premio Un Certain Regard per l’originalità al 74esimo Festival di Cannes e vincitore del Festival del cinema fantastico di Sitges -, i primi vagiti emessi da un agnello del tutto particolare, appena estratto dal ventre materno, diventano invece inattesa occasione di felicità per María (Noomi Rapace, tutta spigoli espressivi e affilata sensualità) e suo marito Ingvar (Hilmir Snær Guðnason): una solitaria e un po’ spenta coppia di allevatori di pecore che vive isolata tra le montagne, dedita agli animali e al lavoro della terra, immersa in una maestosa natura custode del silenzio che sembra aver infettato il loro rapporto illanguidito, fatto di gesti essenziali e meccanici legati alla routine, sguardi meditabondi e parchi di calore, parole ridotte al minimo e ancor meno slanci affettivi. Finché una delle loro bestie dà incredibilmente alla luce un nascituro ibrido, col corpo di neonato e la testa d’agnello, che i due coniugi scelgono di accudire e crescere come una figlia, Ada. L’equilibrio dello strambo quadretto familiare verrà messo alla prova da misteriose forze che agiscono acquattate nell’immensità impenetrabile del paesaggio…
Infiltrata dalle suggestioni del fantastico e dal bestiario immaginario che popola le folk tales della mitologia scandinava, la storia di Lamb, distinta in tre capitoli, sotto il manto dell’horror minimalista sviluppa un’inesorabile parabola morale di elevazione e caduta, di beatitudine e tormento, tra la (im)potenza generatrice e lo scacco della volontà umana, sullo sfondo di una natura arcana e ammonitiva che segue un ciclo imperscrutabile. Jóhannsson dissemina il film di velati riferimenti biblici e cristologici, che assumono il significato di inquietanti presagi sullo svolgersi degli eventi. Fin dal nome stesso di María, novella Madonna michelangiolesca con bambino-agnello da allattare (iconografia citata come ispirazione nei credits di ringraziamento, nonché ieratico modello per la locandina ufficiale del film).
Nel prologo, ambientato nella notte della natività natalizia – come annuncia una voce alla radio invitando alla preghiera -, assistiamo a una sorta di sinistra “annunciazione” dell’occulta presenza che si insinua tra greppie e recinti della stalla, paralizzando di terrore gli ovini dagli occhi spiritati (simili a quelli che funestano gli incubi di María, torvi musi dalle bianche pupille vuote stile visitors, come i bambini del Villaggio dei dannati di Wolf Rilla e John Carpenter): preludio all’anomalo concepimento suggerito nell’immagine della pecora che si accascia al suolo, respirando come spossata dalla fatica. In un altro breve momento del film, scorgiamo Ingvar mentre pittura di vernice rossa gli infissi di porte e finestre del caseggiato, evocando visivamente – oltre a evidenti tracce dello spiritismo di Shyamalan (The Village, 2004) – il passo dell’Esodo in cui si fa riferimento al “sangue [che] posto sugli stipiti delle porte, salverà dall’Angelo della Morte”.
Qui, però, l’agnello come auspicio di rinnovata armonia, simbolo della candida probità del mondo ascetico del buon pastore, fuori dal tempo, in cui scorre l’esistenza dei protagonisti, sembra rovesciato di segno: non più salvatore ma causa indiretta e premonitrice della cacciata dall’Eden agreste. Più che l’agnus dei – l’offerta sacrificale immolata per la redenzione dei peccati degli uomini -, l’agnello-bambino incarnato da Ada, una volta assunto nel consorzio umano sembra piuttosto preparare la condanna di quest’ultimo. La violazione di un patto di sacralità, sconfessato dalla hybris di María e Ingvar che compiono una radicale scelta contronatura, attirandosi il suo castigo. Lo spunto serve a Jóhannsson per affondare gli artigli, più che nelle (de)generazioni aberranti, nelle pieghe umane della solitudine, nei surrogati affettivi di un nucleo familiare sfibrato che approfitta provvidenzialmente dell’unica – ed ultima – occasione di riscattare ferite profonde.
Il fratello di Ingvar, Pétur (Björn Hlynur Haraldsson), rude rockstar in declino che giunge alla fattoria, additando l’elefante, o meglio, l’agnello nella stanza domestica, è colui che riflette razionalmente lo sbigottimento e lo sconcerto dello spettatore per una situazione che i due genitori assumono come assolutamente normale. Prima di una magistrale ellissi che arricchisce l’ambiguità, Jóhannsson lo segue mentre al levar del sole prende per mano la “nipote” Ada e si allontana nella vallata, fucile alla mano, suggerendo la tentazione di un gesto estremo come il sacrificio di Isacco trascinato sul Monte da Abramo, qui in nome della ragione (?) o di un qualche oscuro dio pagano, che ferma la mano all’esecutore come al regista che tronca l’inquadratura senza mostrarne il mistero.
Fedele ai principi estetici e al rigore della messa in scena in sottrazione di Béla Tarr – qui in veste di produttore esecutivo -, Jóhannsson, allievo alla Filmfactory del maestro ungherese, ne mutua in Lamb la dilatazione delle inquadrature, i piani fissi, lo scarno ermetismo visivo, la concentrazione narrativa e la sospensione temporale, dentro limpide e impalpabili atmosfere raccolte tra dramma surreale e supernatural horror. Dove più che i soprassalti visivi, contano le attese differite, il sottile lavoro di tessitura della tensione esercitato nel fuoricampo, nella pressione di una natura indecifrabile e muta, nutrice accogliente e inospitale che accerchia spessa e invisibile come una coltre di nebbia improvvisa. Basti vedere lo spiazzante frammento di cinema non antropocentrico in apertura, con il lento avanzare notturno nella sconfinata distesa di neve di una presenza sconosciuta di cui – in soggettiva senza possibile soggetto – percepiamo soltanto il pesante e rauco respiro.
Rimarrà dunque deluso chi si aspetta l’incursione nel body horror materico degli ibridi mostruosi. Lamb, dietro le apparenze e i codici del genere, riletti con misura e un incedere narrativo che si prende decisamente i suoi tempi (un’asciutta reticenza che può scoraggiare i puristi), è il travagliato cammino nel vuoto di due individui dispersi che provano a recintare un nuovo spazio familiare, una nuova identità materna, illudendosi di restare al riparo di un ignoto senza nome e senza forma che il paesaggio esterno conserva e protegge.
In un dialogo forse rivelatore, all’inizio del film, María e Ingvar parlano dell’invenzione della macchina del tempo: un’eventualità teorica che – dice María – andrebbe realizzata nella pratica, per il ritorno a un passato perduto o per una fuga in avanti dalle secche di un’esistenza infeconda. In questa sospesa oscillazione del tempo nell’isolamento dello spazio, Lamb, pessimisticamente, segna la sconfitta delle possibilità umane di rifondare un futuro diverso, intrappolando gli archetipi del Padre e della Madre nell’eterno ritorno di una minaccia dagli echi ancestrali.
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