Laggiù qualcuno mi ama (2023), l’ultima fatica del regista napoletano Mario Martone, è un documentario dedicato alla memoria di Massimo Troisi nei panni di regista e autore, presentato alla 73° edizione del Festival del Cinema di Berlino nella sezione Berlinale Special e distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 23 febbraio.

A dispetto di tutte le opinioni generalizzate in ambienti non cinefili, i documentari sono film per definizione, rappresentano soltanto una delle svariate ramificazioni in generi a cui sono soggetti i prodotti di stampo cinematografico o televisivo. L’educazione audiovisiva italiana, assente dalle scuole se non con fini ausiliari e irrispettosi della natura del mezzo, porta spesso a considerare degni della definizione di film soltanto i prodotti di finzione a carattere narrativo. Per quanto questa riflessione possa risultare banale alla stragrande maggioranza dei nostri lettori, è doveroso ricordare come il cinema al momento della sua nascita nel 1895 (perdonerete la semplificazione dei fatti storici) fosse uno strumento di cattura del mondo nella sua verità e come le primissime vedute dei fratelli Lumière, prima delle sperimentazioni narrative, non fossero altro che dei documenti del mondo che li circondava.

La potenza del documentario, il cui confine con il film saggio diventa davvero sottile in Mario Martone, non è rappresentata solo dalla possibilità di mostrare uno stralcio di realtà (apparentemente senza filtri). Le grandi possibilità aperte dal documentario sono soprattutto quelle di fornire un’interpretazione critica del mondo e dei fatti presentati, di mostrare un dato oggetto sotto una luce differente, di spostare l’attenzione degli spettatori su elementi spesso in ombra o addirittura sottovalutati. Questo è esattamente quanto fatto da Mario Martone con Laggiù qualcuno mi ama, nel tentativo di rendere omaggio a Massimo Troisi non solo in quanto comico, ma in quanto Autore e Regista cinematografico.

Sembra un problema tutto italiano quello di non riuscire a considerare i cosiddetti comici al di fuori della loro comicità, vedendoli dunque come attori a tutti gli effetti e, in alcuni specifici casi, riconoscendogli lo status di registi tout court. Nessuno oserebbe mai mettere in dubbio la natura di attori, autori e registi di primo ordine di Buster Keaton, Charlie Chaplin o Woody Allen. In Italia, invece, sembra che il riconoscimento di questi status, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, sia possibile soltanto in riferimento alla figura di Nanni Moretti e all’unicità del suo cinema, riconosciuto a livello internazionale e ben accolto in ambienti festivalieri.

Massimo Troisi condivide l’etichetta di malincomico con un altro attore, regista e autore emerso dalla sperimentazione teatrale e dalla televisione a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: Carlo Verdone, anche lui scarsamente riconosciuto per il suo lavoro di ricostruzione della commedia italiana in un periodo di magra per il cinema nostrano. Se la rivalutazione di Carlo Verdone in quanto attore a tutti gli effetti tarda a venire, e sarà compiuta soltanto nel 2013 nel film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, per Troisi il discorso è ben diverso. Le sue doti attoriali vengono accreditate già a partire dalla sua opera prima, Ricomincio da tre (1981), con la vittoria del David di Donatello per miglior film e miglior attore, del Nastro d’argento per miglior regista e attore esordiente e del Globo d’oro per la migliore opera prima e come attore rivelazione.

Sarà poi il sodalizio con Ettore Scola, uno dei mostri sacri del cinema italiano del dopoguerra, nel felicissimo biennio 1989-1990, a mostrarci il talento cristallino di Massimo Troisi nella recitazione. Il regista di C’eravamo tanto amati (1974) e Una giornata particolare (1977) sembra accompagnare Troisi per mano nel percorso della sua maturazione artistica, attraverso tre film cronologicamente distanti dai grandi capolavori del maestro di Trevico, ma che rappresentano comunque la fase della maturità nella carriera di un autore che non ha mai smesso di avere qualcosa da dire. I tre film in questione sono Splendor (1989), Che ora è (1989) e Il viaggio di Capitan Fracassa (1990); fondamentale il sodalizio con Marcello Mastroianni nei primi due film, soprattutto nel secondo di essi, che varrà ai due una Coppa Volpi ex aequo per la migliore interpretazione maschile alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

È parlando dell’ultimo lavoro di Massimo Troisi che si può tracciare una linea di congiunzione tra Troisi-attore e Troisi-autore. Di Massimo Troisi, non con. Ci tiene a specificarlo Mario Martone parlando de Il postino (1994) diretto da Michael Radford. Poco importano, in questo caso, le candidature all’Oscar per Massimo Troisi sia in quanto attore che in quanto sceneggiatore. Il postino è, per Mario Martone, la prova definitiva dell’autorialità di Troisi, capace di portare avanti la propria poetica e i propri discorsi anche in film non diretti in prima persona.

L’opera di Massimo Troisi viene messa sotto una luce alternativa, a tratti nuova, e viene tracciato un filo conduttore che accomuna tutte le sue opere: la ricerca dell’amore e del suo senso, in un’epoca in cui esso sembra sfuggire e tramutarsi in un oggetto incomprensibile e imprevedibile, in contesti sociali diametralmente diversi rispetto a poche decine di anni prima. Troisi porta sullo schermo sempre lo stesso personaggio, suo alter-ego, un ragazzo (poi un uomo) insicuro, disorientato, incapace di prendere una posizione forte nel mondo e di farsi strada in maniera decisa. È caratterizzato dalla continua esitazione presente nel suo modo di fare, le frasi non sono mai pronunciate con convinzione e la sua inadeguatezza è sottolineata da gesti e tic ripetuti fino allo sfinimento. La comicità di Massimo Troisi, proprio per questo, non è fulminante, ma basata su una costruzione lenta e inesorabile.

La ricerca dell’amore trova la sua espressione nella caratterizzazione delle co-protagoniste femminili delle sue storie: se le parole chiave per descrivere i personaggi interpretati da Massimo Troisi sono inadeguatezza e insicurezza, per le donne è l’esatto contrario. Si tratta di personaggi forti, risoluti, coscienti della loro condizione e pronti a sovvertire i sistemi sociali e delle relazioni interpersonali. Mario Martone intrattiene un vero e proprio dialogo con la co-sceneggiatrice di Massimo Troisi, Anna Pavignano, l’anima femminile della sua opera, che lascia inoltre emergere dal racconto di aneddoti, da registrazioni e appunti del regista, la sua sensibilità, la sua vena poetica, la sua vocazione politica, le sue paure e, in fondo, i punti fissi del suo pensiero e della sua riflessione: amore e morte, Eros e Thanatos.

Mario Martone non ha paura di prendere posizioni forti. Non ha paura di prestare la sua voce, di mostrarsi davanti alla macchina da presa. Insomma, non ha paura di metterci la faccia. La scelta di far parlare Massimo Troisi in prima persona, attraverso le immagini da lui prodotte in quanto regista, è di per sé una presa di posizione molto forte. Così come l’opera diretta da Martone è caratterizzata dalla scelta evocativa di affiancare il lavoro e la vita di Troisi alle note del suo caro amico Pino Daniele, in un’atmosfera capace di toccare le corde più profonde dell’animo umano.

Ma il momento in cui Mario Martone dimostra la sua piena consapevolezza autoriale e il suo coraggio è nel paragone tra Massimo Troisi e la Nouvelle Vague francese, soprattutto con François Truffaut. Come per i giovani turchi della rivista Cahiers du Cinema, Troisi viene presentato come un artista libero, pienamente politico, capace di far ridere e riflettere, con il filtro onnipresente della malinconia. L’alter-ego di Massimo Troisi viene visto come un Antoine Doinel italiano, che cresce di film in film, nel carattere e nell’aspetto, alla ricerca di sé stesso e di un senso per ciò che lo circonda. Un personaggio in perenne corsa, come i protagonisti di Jules et Jim (François Truffaut, 1962), che potrà finalmente riposare con una convinzione salvifica: “Eppure un sorriso io l’ho regalato“.

Tutto quello che Massimo tocca, diventa suo. Anche questo film di Mario Martone, in fondo, è un po’ un film di Massimo Troisi.


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Alessandro Corrao, Redattore