Lo sguardo del Cinema sulle atrocità della Storia e, in particolare, su quella a noi più prossima – geograficamente e culturalmente – che è l’Olocausto, è sempre stato attraversato da una grande ambiguità di fondo. Da un sottile dubbio sulla effettiva capacità del racconto cinematografico di rendere concepibile la portata del sistematico sterminio di oltre dieci milioni di esseri umani. Neppure un capolavoro (secondo molti, definitivo) come Schindler’s List è stato esente da critiche – vedi l’opposizione di Michael Haneke all’idea di trasformare il racconto dello sterminio e dei suoi responsabili in intrattenimento per le masse -, sull’approccio di Spielberg alla materia storica, che renderebbe – da questo punto di vista – il racconto della tragedia più facilmente assimilabile dal pubblico e proprio per questo a rischio di risultare consolatorio e banalizzato.
La parola chiave è proprio “sguardo”. È innegabile l’inerente spettacolarizzazione del mezzo Cinema, unito all’umana fascinazione per il Male, e la domanda resta: come lo si raffigura senza banalizzarlo? La zona d’interesse, ultima fatica da regista/sceneggiatore di Jonathan Glazer, tenta di affrontare proprio tale questione.
La quotidianità del male
La “zona d’interesse” comprende l’abitazione del tenente colonnello Rudolf Höß (Christian Friedel), primo comandante di Auschwitz e principale responsabile della sua struttura. Rudolf vive con la moglie Hedwig (Sandra Hüller) in una villetta con giardino ricavata a ridosso delle mura del campo di sterminio. Festeggia il suo compleanno in famiglia, porta i figli a nuotare nel fiume vicino e ospita la suocera, orgogliosa del loro successo professionale. Ogni tanto, sullo sfondo, si alza il fumo delle ciminiere o il vapore dei treni in arrivo; ogni tanto, grida, spari ordini penetrano nel rettangolo di Eden che Rudolf e la sua famiglia si sono costruiti.
La vita quotidiana del re e della regina di Auschwitz, figure prive di particolari vizi o virtù, viene isolata nella loro ritualità lavorativa. Höß non appare più malvagio di un dirigente d’industria particolarmente dedito al proprio lavoro, e organizza il massacro quotidiano di Auschwitz così come Hedwig gestisce il suo regno domestico: con efficienza e precisione.
Mai si corre il rischio di empatizzare con i loro movimenti psicologici, dominati da una completa e spaventosa apatia nei confronti dello sterminio che avviene quotidianamente a pochi metri da loro, e mai si subisce fascinazione per la loro assoluta mediocrità. Vengono svuotati di qualsiasi connotazione mostruosa, e proprio per questo risultano così vicini a quella malata concezione di normalità che ha reso l’Olocausto possibile in primo luogo.
Etica dello sguardo
Non per questo si può dire che Jonathan Glazer tratti la materia storica e i suoi soggetti in chiave naturalistica. Al contrario, mai come in questo caso il mezzo cinema sbatte in faccia allo spettatore le proprie regole, le proprie costruzioni razionalizzanti con l’obiettivo di smascherarne l’implicita artificiosità. Jonathan Glazer segmenta lo spazio in modo parossistico, imprigiona i personaggi e lo spettatore in una monotona successione delle stesse insistite inquadrature, rompe le convenzioni formali per alienare l’immersione dello spettatore e fargli prendere piena consapevolezza della limitatezza degli spazi.
La forma vive di contrasti e opposizioni (acqua-fuoco, istinto-razionalità). Su tutte, quella tra luce e buio e, per analogia, tra visibile e non visibile. Proprio questo contrasto svela la natura parziale dello sguardo cinematografico rispetto alla realtà e, allo stesso tempo, costringe lo spettatore all’estremo tentativo di superarlo per rivelarne il cuore. La morte, in La zona d’interesse, non si vede mai. È solo il sonoro a rivelare cosa si celi al di là del filo spinato, reale o metaforico: che siano i suoni della morte oltre il muro, la colonna sonora di Mica Levi che colpisce i timpani come un incubo ultraterreno, o uno spartito composto da un prigioniero del campo di concentramento, recuperato dalla partigiana polacca colta nelle sue notturne missioni.
Il passato e il presente
Lucida riflessione sulla Storia e sul nostro approccio come spettatori – e come artisti – alla stessa, il film di Jonathan Glazer è già entrato a fare parte del pantheon dei drammi storici obbligatori e si impone sin d’ora come uno dei film migliori dell’anno. Rispetto al romanzo di Martin Amis cui è liberamente ispirato, reintegra i nomi delle persone reali, ma non vuole limitarsi alla fotografia – per quanto accurata – dell’epoca. Le atrocità del passato si dissolvono nel presente, diventano materia da museo o da trattazione storica, e i loro artefici scompaiono nelle ombre della Storia. Per questo è fondamentale andare oltre la forma, individuare le storture della nostra quotidiana indifferenza per non ritrovarci complici inconsapevoli di nuovi e diversi incubi della ragione. Non limitati al passato né a una sola area geografica, non rinchiusi una singola zona d’interesse, ma ovunque nel mondo si ripetano ancora oggi i medesimi orrori.
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