Ispirato all’omonimo graphic novel di Gipi, La terra dei figli è il nuovo film diretto e co-sceneggiato da Claudio Cupellini e potrebbe essere una delle più grandi sorprese del cinema italiano recente.
Innanzitutto è un film di un genere, a esclusione di produzioni fantascientifiche italiane degli anni ’70-‘80, non così esplorato dal cinema nostrano: la storia ha luogo in un imprecisato futuro post-apocalittico, a seguito di una guerra. La civiltà è al collasso, i superstiti sono abbandonati alla lotta per la sopravvivenza; in questo paesaggio un ragazzo analfabeta, interpretato da Leon de La Vallée, alla morte del padre cerca qualcuno che possa leggergli il diario che il genitore custodiva. Attraversa quindi un territorio paludoso abitato da personaggi ostili, in cerca di risposte che il diario può dargli.
La “terra dei figli” è una terra che ha rinunciato sia al passato che al futuro: i ricordi e la Storia sono un dolore pericoloso, da evitare, mentre del domani non sembra importare nessuno. Tanto che i figli, la generazione nata dopo la catastrofe, viene trattata come un fastidio nel migliore dei casi, e come carne da macello nel peggiore, e subiscono tutto il peso degli errori dei loro genitori. La buona regia di Claudio Cupellini alterna ritratti di questo mondo e momenti di introspezione: campi lunghissimi che abbracciano paludi e resti di una civiltà tramontata, alternati a primissimi piani spesso scavati nella luce fioca di una lanterna. Le ambientazioni sono protagoniste quanto i personaggi, favorite dall’ottimo production design di Daniele Frabetti e dalla fotografia di Gergely Pohárnok. Questa terra è fatta di vaste paludi, strade colme, complessi industriali abbandonati abbandonati sporche, umide, metafora di un tempo immobile e smorto ma non del tutto privo di speranza.
I personaggi sono complessi e ben definiti: Leon de La Vallée, nella maggior parte del film piuttosto acerbo e monocorde, riesce comunque a offrire lampi di grande intensità attoriale, e risulta straordinariamente in parte nell’interpretare il ragazzo senza nome, crudele e fragile, in cerca di un’identità. Ottima Maria Roveran nel ruolo di Maria, una ragazza inizialmente prigioniera di due contadini, che accompagna il protagonista nel suo viaggio. Due giovani supportati da un bel cast che comprende sorprendenti volti noti, come la “strega” cieca interpretata da Valeria Golino e il boia che, sotto la maschera, nasconde un irriconoscibile Valerio Mastandrea.
È facile trovare imperfezioni in questo film: la durata è forse un po’ troppo estesa rispetto alla storia raccontata ed è un peccato non aver trovato più posto per le figure femminili, oltre a quello di supporto emotivo per i personaggi maschili. Tuttavia La terra dei figli è un film ispirato e coraggioso e dimostra, ancora una volta, la capacità del cinema nostrano recente di giocare con generi e storie che sembravano non avere più molto di nuovo da offrire. Non avrà l’impatto mediatico sfolgorante di Lo chiamavano Jeeg Robot, le dimensioni da blockbuster de Il primo Re o l’urgenza civile di Sulla mia pelle; tuttavia, il cinema italiano (ri)parte anche da qui.
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