Il multiverso sbarca sul Lido veneziano, o almeno così pare, nel primi minuti de Die Theorie von Allem o La teoria del tutto (da non confondere col biopic dedicato alla vita di Stephen Hawking). Il film si apre con un’intervista effettuata all’autore di un libro chiamato, appunto, La teoria del tutto. Johannes Leinert presenta il suo romanzo ad una televisione tedesca, insistendo che si tratti di una storia vera nonostante i dubbi del presentatore ed il pubblico, e si allontana evidentemente scosso dopo aver fatto un appello in camera rivolto ad una certa ‘Karin’.

Quello che segue è un lungo flashback che ci porta a 12 anni prima l’intervista, nel 1962, e che ci racconta gli avvenimenti riportati nel libro. Johannes, dottorando in fisica che lavora da due anni ad una tesi sulla possibile esistenza del multiverso, si reca assieme al suo relatore ad una conferenza stampa sulla teoria del tutto in un hotel sulle montagne svizzere. Qui si verificano una serie di strani eventi e Johannes è coinvolto in un mistero che segnerà la sua vita.

L’incipit è ben impostato e trascina immediatamente il pubblico con una premessa interessante. Come affermato dal presentatore del programma, La teoria del tutto è una storia mistery fantascientifica, ambientata in un setting decisamente inedito. Le montagne svizzere non sono certo il luogo più gettonato per un film fantastico, ma si rivelano invece molto appropriate per l’altro genere di riferimento: il noir. Girato in un bianco e nero che favorisce forti contrasti tra luce ed ombra (il regista, Timm Kröger, ‘nasce’ d’altronde direttore della fotografia), ne La teoria del tutto si gioca molto sulle silhouette e sui volti, spesso immersi nell’oscurità o parzialmente coperti. Uguale importanza hanno anche gli ambienti, sia gli esterni (le ostili montagne perennemente coperte di neve, reminiscenti di un dramma scandinavo) sia gli interni che vengono anch’essi ripresi attraverso una costante opposizione tra luce ed ombra, visibile ed invisibile, nascosto ed in mostra.

Il film riprende del genere anche i ‘tipi’ caratteriali (l’osservatore ingenuo, la femme fatale…) ed i modelli registici (Hitchcock è una ispirazione dichiarata ed una scena in particolare sembra omaggiare il confronto finale de La finestra sul cortile). Anche l’uso delle transizioni risulta evidentemente ispirato ad una certa tradizione, ma per quanto comprensibile, l’utilizzo della dissolvenza incrociata risulta veramente troppo esasperato. Un altro elemento decisamente invasivo per la riuscita del prodotto finale è l’inferenza della colonna sonora, che accompagna quasi tutta la durata del film. L’impressione è quella di una scarsa fiducia nella capacità delle immagini di parlare per sé e comunicare allo spettatore la loro funzione e le emozioni che dovrebbero suscitare.

Se la premessa con la crasi di due generi è interessante, il risultato non è però del tutto riuscito nel suo tentativo di unione: l’elemento noir è quello preponderante, e l’equilibrio tra soprannaturale e quotidiano non si raggiunge mai davvero del tutto come è invece in un altro dei punti di riferimento dichiarato di Kröger, ovvero Lynch. Più che di fantascienza vera e propria come dichiarato nell’incipit, il film vive di conturbante, di distorsioni della realtà ed elementi non chiari a cui non viene mai data un’effettiva risposta. Sta allo spettatore mettere insieme i pezzi disparati che il film fornisce e cercare di ricostruirli in un insieme coeso.

Il risultato è un film certamente interessante, un esperimento con immagini estremamente suggestive, capace di creare e mantenere un’atmosfera, ma che non riesce sfortunatamente a sfruttare mai a pieno la propria premessa. Potremmo dire che, come nel caso della tesi di Johannes, abbiamo un’idea interessante che però manca di sostanza.

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Silvia Strambi,
Redattrice.