È uscito nelle sale l’ultimo lavoro di Tom McCarthy, un thriller con protagonista Matt Damon in un caso giudiziario ispirato al caso Knox, con il quale però condivide solo alcuni punti superficiali.
Seguiamo la storia di Bill Baker (Matt Damon, appunto), un umile lavoratore dell’Oklahoma che si trova ad andare oltreoceano per far visita alla figlia (Abigail Breslin) detenuta in un carcere a Marsiglia ormai da 5 anni, accusata di un omicidio che continua a sostenere di non aver commesso. Nel disperato tentativo di dimostrare la sua innocenza in una terra straniera, senza conoscere la lingua e senza alcun sostegno da parte delle giustizia che ritiene il caso chiuso ed impossibile da riaprire, Bill incontra Virginie (Camille Cottin) e la piccola Maya (Lilou Siavaud), che riusciranno a fargli intravedere la possibilità di costruirsi una vita ed una famiglia senza però dimenticare il suo obbiettivo, che lo tormenta costantemente: trovare il modo di dimostrare l’innocenza della figlia Allison.
Il film, presentato fuori concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes, ha riscosso un grande successo riconfermando le grandi abilità di Tom McCarthy, già conosciuto per lavori amati dalla critica come Il caso Spotlight, con cui ha vinto anche l’Oscar per la sceneggiatura.
La struttura narrativa è solida e ben scritta, sostenuta da un reparto tecnico semplice ma efficace. Le scelte registiche sono chiare ed essenziali e la fotografia non presenta sbavature.
Un grande plauso va alla prova attoriale di tutto il cast, in particolare alla giovanissima attrice nei panni di Maya e ad un Matt Damon superlativo che riesce a trasmettere pienamente l’essenza del film e del suo personaggio, quello di un uomo intrappolato in una società e in una cultura a lui estranea. Il film si sofferma, infatti, sullo scontro culturale che i personaggi vivono costantemente. Bill Baker è un americano al 100%, quasi stereotipato, e lo dimostra in tutto: dalla postura al modo di pensare. Sarà costretto ad affrontare le difficoltà di interagire con una Marsiglia chiusa e ostile con lo straniero per cercare di salvare la figlia.
Per quanto le premesse sembrino mostrare il lato investigativo come principale, in realtà la storia che ci viene mostrata ha ben altri obiettivi, tra cui la già citata voglia di mostrare la diffidenza verso l’altro (non solo nei confronti del protagonista ma anche verso comunità minori) e un costante desiderio di redenzione e riempimento dei vuoti nelle vite dei personaggi. Il rapporto incrinato con la figlia Allison porterà Bill a vedere in Maya e Virginie, in cerca di una figura paterna per la figlia e di un compagno per la madre, una perfetta seconda chance, una possibilità di redimersi dagli errori passati e ricominciare da zero. Ma per quanto possa provarci non può lasciarsi alle spalle il suo passato.
Il punto focale del film è proprio l’interazione tra i personaggi che mostrano con evidenza la differenza tra due mondi, quello americano e quello europeo, sia negli aspetti più semplici come lo stile di vita quotidiano, sia nel profondo andando a mostrare la tradizione e il pensiero politico che contraddistinguono i due continenti, con un America trumpiana molto più decisa e pronta a ottenere con ogni mezzo ciò che vuole e un Europa, nello specifico una piccola comunità della Francia, diffidente nei confronti dei modi di fare dello straniero statunitense.
L’autore riesce a valorizzare ogni dettaglio della storia, tutto è coordinato e trasmette bene l’idea che il regista vuole comunicare, dalle ambientazioni agli sguardi degli attori. La ragazza di Stillwater è in definitiva un ottimo lavoro, soprattutto grazie alle abilità del suo autore, che riesce ad usare lo scheletro di un thriller investigativo per analizzare un contesto multiculturale più generale attraverso la storia drammatica di un singolo individuo.
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