Che siano le note orchestrali di Leonard Bernstein vissute dalla socialite Felicia Montealegre in Maestro di Bradley Cooper, oppure l’eco di quelle rock ‘n’ roll di The Pelvis riflessa su Priscilla Beaulieu in Priscilla di Sofia Coppola, il gioco poco cambia: narrare i chiaroscuri di grandi icone maschili dal punto di vista del femminile, capire come la società uomo-centrica che ancora stenta a scomparire si sia riflessa prima sulle stesse icone e per osmosi sulle loro compagne. Omo-centrismo che ne La moglie di Tchaikovsky è sbeffeggiato già dal titolo, dove si oggettifica e si spersonalizza la moglie del compositore nonostante il film narri le vicende proprio dal punto di vista di quest’ultima; lo scorso maggio, infatti, il 75º Festival di Cannes ha visto il ritorno sulla croisette del regista dissidente russo Kirill Serebrennikov, tornato in concorso per la Palma d’oro appena un anno dopo Petrov’s Flu e soprattutto dopo la libertà dagli arresti domiciliari, durati ben cinque anni e scontati per una (a dir poco) controversa accusa di appropriazione indebita di fondi pubblici.
La moglie di Tchaikovsky è una coproduzione Russia-Francia-Svizzera ed è ambientato nella Russia imperiale di fine XIX secolo, dove l’aspirante musicista Antonina Miliukova (Alyona Mikhailova) riesce a sposare il celebre compositore Pyotr Tchaikovsky (Odin Lund Biron), di cui è perdutamente innamorata. Il’ič non ha mai amato una donna e continua a celare la sua inclinazione sessuale anche dietro al matrimonio borghese, che proietta Antonina in una spirale d’ossessione nei confronti del marito. Il film si conclude con la fine del matrimonio, durato dal 1877 al 1893, quando Tchaikovsky morì senza che la moglie avesse mai accettato la sua omosessualità.
Parola di Dio
Idolo, divinità e ideale: Il’ič è l’Assoluto a cui tendere per Antonina, prima il totem da venerare e poi il cimelio da celebrare. Non vuole separarsene, l’estro del marito è la sua linfa vitale, lui è il Dio da pregare quotidianamente; non siamo distanti dal Veniamin predicatore di Parola di Dio, altro film di Serebrennikov che affrontava l’idolatria e le sue derive paranoiche e ossessive. Non ci sono muse ispiratrici per il regista, o almeno non pensa che la musa possa avere forma umana: Antonina fonda una nuova religione, dà vita a un nuovo culto che vede il marito sull’altare, assistiamo a rituali pagani, citazioni della Bibbia, visioni del Sacro che degenereranno in deliri allucinatori. La moglie lo sogna, lo ricorda, prima lo brama e poi lo respinge, lo cerca, lo (ri)trova e non volendolo più perdere, ironia della sorte, perde invece il senno. Il film è tutto un po’ caotico e frastornante proprio come la moglie del titolo, ma non è un pregio: il focus è solo ed esclusivamente su Antonina e non capiamo mai bene le cause dell’ossessione per l’illustre compositore, di fronte al quale la degenerazione psicologica definitiva avverrà quando intuirà la sua segreta omosessualità, che non accetterà né ora né mai. Ricordate L’altra faccia dell’amore (in originale The music lovers) di Ken Russel? Come cambia il cinema col mutamento di sensibilità: stessa storia ma dal punto di vista inverso, esattamente come si specchiano Elvis (Luhrmann) e Priscilla (Coppola), altro film dove veniva significativamente evitato l’utilizzo di canzoni dell’artista, come avviene ora con le composizioni di Tchaikovsky. Qui però c’è un ribaltamento di caratteri, dal paradossale stoicismo di Priscilla che non lasciava mai trasparire un briciolo di eros, passiamo alla morbosa e poco comprensibile (per gli spettatori) esplosione d’erotismo di Antonina che vuole possedere il marito carnalmente, artisticamente e psicologicamente.
Il film vorrebbe quindi essere una denuncia al governo russo su duplice versante: l’ingiusta condanna all’omosessualità ribadita anche dal recente rafforzamento dell’oscena “legge russa sulla propaganda gay” e quella concernente la condizione delle donne nel Paese, ancora oggi soggette a una condizione pressoché uguale a quella di fine ‘800. Se da un lato la Russia cerca da sempre di occultare il lato omosessuale di una delle sue più grandi figure storiche, motivo di forte (e ridicolo) imbarazzo per tutta la nazione, l’altra faccia della medaglia dovrebbe essere proprio l’alienazione sempre più forte a cui sono condotte le donne a causa della pratica di creazione di figure mitologiche maschili, il cui fascino ha dominato e domina tuttora le giornate (costrittivamente) vuote e monotone della maggior parte delle donne, tenute prigioniere prima socialmente e poi psicologicamente dalle personalità artistiche e politiche magnificate dalla società, dalla Storia, e di cui bisognava e bisogna diventare devote. Donne che erano e sono ancora soltanto un nome nel passaporto di un uomo, vittime di un’ipocrisia sociale con pochi eguali che le danneggiava tanto quanto le loro divinità, come il Tchaikovsky denudato della sua aura divina e ridotto al sé stesso che Antonina vedrà solo alla fine, sprofondando vorticosamente nella perdita della ragione e conducendo il marito alla controversa morte (si discute ancora di un probabile suicidio).
Stessi meccanismi, stesse problematiche
Queste intuizioni, tuttavia, sono dedotte assemblando diversi spunti tematici che il film affronta solo in parte e in superficie, scegliendo la via della ridondanza, una strada che dovrebbe rispecchiare la patologia opprimente di Antonina ma che a giochi fatti stenta a discernere a fondo tutte le contraddizioni sociali della Russia e, anzi, creando un pericoloso cortocircuito: concentrandosi esclusivamente sul legame in cui la moglie è sempre un buco nero che inghiotte qualsiasi cosa le graviti attorno, dalla macchina da presa ai dialoghi, dalle relazioni fra personaggi al (tentativo di) approfondimento psicologico, non capiamo mai fino in fondo l’origine del morbo, il perché di determinate azioni, in un meccanismo ripetitivo e ampolloso che ribadisce l’unico concetto fino allo sfinimento. Per assurdo troviamo gli stessi difetti di Priscilla sebbene le due protagoniste siano diametralmente opposte: forse limitarsi al mero rapporto di coppia comprime entrambi i film, avvertendo l’assenza di un contesto sociale che permetta allo spettatore di comprendere perché avvengono certe cose e soprattutto dove, in quali circostanze storiche;
La moglie di Tchaikovsky prova qualche suggerimento occasionale, mostrando il fango di cui sono ricoperte le strade lerce di una Russia sulfurea e mortifera, dove si intravedono squarci di degrado sociale con i ceti più bassi lasciati a morire sui marciapiedi come animali. Tutto ciò non basta in un film di quasi due ore e mezza che opta invece per la reiterazione, dove la centralità di Antonina annulla il fascino sinistro della complicatezza e rischia, paradossalmente, di far apparire lei stessa come personaggio negativo. La ridondanza tagliava le gambe anche a Parola di Dio, sempre con Serebrennikov in cabina di regia e in sceneggiatura: se il suo indubbio e sontuoso gusto estetico fosse accompagnato da una scrittura meno pedante e pletorica, ci troveremmo davanti a un enorme talento. Staremo a vedere se in futuro riuscirà a coniugare questi due aspetti: a 54 anni potrebbe ancora riservarci grandi sorprese.
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