Leggendo la trama de La stanza accanto siamo indotti a pensare a un film faticoso, dai toni angosciosi e cupi. Recandoci poi in sala ci accorgiamo, nonostante l’argomento spinoso, di trovarci di fronte a una storia che non parla di morte nel modo in cui siamo abituati a percepirla, ma si muove tra le pieghe della vita cercando di celebrarla.

Il primo lungometraggio in lingua inglese di Pedro Almódovar (premiato con il Leone d’oro alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) non ricorre mai all’inquietudine o al tormento, anzi sottolinea la rilevanza degli impercettibili gesti del quotidiano quando si è consapevoli di una incombente fine.

Ingrid (Julianne Moore), un’affermata scrittrice che ha appena pubblicato un libro, incontra la vecchia amica Martha (Tilda Swinton), corrispondente di guerra gravemente malata. Legate da un rapporto ormai sfumato con gli anni, si troveranno a trascorrere insieme gli ultimi momenti della giornalista in una casa immersa nei boschi.

Il regista spagnolo scrive una sceneggiatura (tratta dal romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez) affidata completamente alle due attrici, che dimostrano una grande prova di recitazione. I dialoghi risultano fondamentali e le protagoniste, in una messa in scena quasi teatrale, si lasciano andare a parole e racconti che si susseguono, come scatole contenute una dentro l’altra.

I ricordi si rincorrono senza organicità e passano in angoli di tempo differenti mentre una musica extradiegetica ci conduce nella dimensione del melodramma, tanto caro al cineasta.

Il racconto si divide in due macro-momenti: nella prima parte riecheggia il passato di Martha e nella seconda diventa necessario allontanarsi dalla memoria e trasferirsi in un luogo nuovo, estraneo, nel quale poter salutare il mondo senza rimpianti.

Almódovar affronta il tema dell’eutanasia mantenendo sempre attiva un’intima riflessione sull’esistenza. I due personaggi principali camminano con discrezione su questo suolo delicato, una terrorizzata dalla caducità dell’essere umano, l’altra pronta ad accettarla consapevolmente.

Fotografia e scenografia contribuiscono a dare un senso di pace alla vicenda: le stanze sono sempre illuminate dalla luce del sole e piene di oggetti familiari, di dettagli dalle tonalità vivide. Swinton è vestita di colori sgargianti che le accendono il volto chiarissimo ed etereo.

L’intera narrazione è al servizio di una imminente morte, che lo spettatore attende provando ad adeguarsi alle sfumature di serenità che gli vengono continuamente suggerite.

L’aria mortifera si fa largo anche attraverso le citazioni cinematografiche: le due guardano Lettera da una sconosciuta di Max Ophülus e Gente di Dublino di John Huston (il cui titolo originale non a caso è The dead).

Martha ricorda il finale della raccolta di Joyce, nella quale la neve indistintamente si posa sui vivi e sui morti. I fiocchi si muovono in maniera sommessa, placida, proprio la stessa con la quale lei desidererebbe andarsene.

La stanza accanto in realtà racconta la meraviglia dell’universo, dei rapporti, delle occasioni e ci indica dove ci troviamo, lasciandoci osservare gli alberi all’orizzonte, tra una porta chiusa e una ancora aperta.