L’esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal è stato uno di quegli esordi fulminanti in grado di conquistare ampi consensi dalla critica: tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, La Figlia Oscura è stato candidato a tre Premi Oscar e due Golden Globes, oltre a vincere il premio alla Miglior sceneggiatura all’edizione 2021 della Mostra d’arte cinematografica di Venezia.
La sua origine letteraria è ben evidente nella struttura narrativa, e l’introspezione della protagonista è prettamente romanzesca: da novella Clarissa Dalloway, la professoressa universitaria Leda Caruso si trova per casualità a confrontare lo spettro della propria giovinezza. a partire dalla curiosa osservazione di una famiglia in vacanza, e dall’identificazione nella giovane e frustrata madre Nina (Dakota Johnson). In lei, Leda Caruso rivede tutti i propri sbagli, e fa un bilancio della propria esperienza della maternità e delle proprie mancanze.
MOMENTS OF BEING
Maggie Gyllenhaal si cala con ammirevole passione nella fonte letteraria, nella storia di giovani donne che affrontano gioie e (soprattutto) dolori della maternità: la regia fatta di camera a mano e primi e primissimi piani e insegue i personaggi nel loro personale labirinto di nevrosi, li pone sotto una lente d’ingrandimento ma riesce anche a entrare in empatia con loro, a comprenderne il cuore fragile -lavoro psicologico cui si accompagna un altrettanto accurato lavoro sulle ambientazioni in cui si svolge la vicenda-; anche se, talvolta, lo fa in modo fin troppo manifesto e programmatico.
Una cosa che si può dire di La figlia oscura è che, nel bene e nel male, non va per il sottile nella sua disamina delle ipocrisie umane: nonostante l’indubbia intelligenza che sta dietro il lavoro sui personaggi e la direzione degli attori, non mancano metafore vistose -la frutta marcia, la bambola rubata- e momenti che calcano la mano quando avrebbero dovuto restare discreti.
Questa occasionale tendenza all’eccesso è facilmente perdonabile, e bilanciata dall’ottimo lavoro sullo scavo psicologico e nella direzione delle attrici protagoniste: personaggio piccolo, fragile e per certi versi sgradevole, ma sempre profondamente empatica, vittima di una vita imperfetta e succube della propria infelicità, la protagonista Leda trova delle interpreti perfette sia in Olivia Colman che in Jessie Buckley, che incarnano alla perfezione le diverse età, senza cercare di imitarsi a vicenda ma mantenendo sempre una coerenza di fondo. Ottime anche le interpretazioni del cast di comprimari (nonostante una Dakota Johnson sempre efficace ma talvolta eccessiva) che danno vita a personaggi ben caratterizzati.
Tuttavia, nonostante il fine lavoro sulla vita interiore della protagonista, dalla fine del secondo atto il film comincia a perdersi nel suo stesso labirinto di storie e sottotrame parallele; questo causa una certa confusione nei rapporti causa-effetto delle interazioni tra personaggi e la sensazione che il finale, quando arriva, sia poco giustificato in rapporto a quanto visto fino a quel momento. La risoluzione del conflitto interiore è risolta in modo anche intelligente, ma quello tra i personaggi è lasciato quantomeno fumoso, a dispetto di quanto detto sopra sulla tendenza della sceneggiatura a calcare la mano quando non serve.
UN INTERESSANTE, IMPERFETTO ESORDIO
Come regista e sceneggiatrice all’esordio, Maggie Gyllenhall dimostra grande abilità e intelligenza registica e un’enorme sensibilità nei confronti dei propri personaggi, e non c’è
dubbio che la sua carriera dietro la macchina da presa si rivelerà altrettanto prolifica e brillante di quella come attrice; e la scelta di questa storia si è rivelata vincente, così come la scelta delle protagoniste Olivia Colman e Jessie Buckley che offrono due grandi interpretazioni.
C’è solo da affinare il suo indubbio talento in narrazioni maggiormente coerenti.
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