Sarebbe sufficiente l’incipit di Nightmare Alley, l’ultimo film di Guillermo del Toro, per accorgersi di come il regista messicano abbia ormai raggiunto la consapevolezza e la sicurezza artistica che appartengono solamente ai grandi maestri del cinema. Un attacco muto, fatto di immagini e di musica, che si distacca dall’abituale racconto in voice over dallo stampo fiabesco tipico del cineasta di Guadalajara e che, in un modo abbastanza palese, segna fin da subito la svolta narrativa intrapresa da quest’opera all’interno della carriera cinematografica dell’autore.
Laddove, infatti, l’intera filmografia di del Toro fino a questo momento era composta interamente da pellicole che ruotavano fortemente intorno a una concezione fantasy, il regista decide di girare una pellicola che – per la primissima volta – abbandona il sovrannaturale, per esplorare contesti realistici a tinte marcatamente noir.
La storia, in pochissime parole, è appunto quella di Stan Carlisle, uomo solitario e dal passato misterioso, che alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale si ritrova, in maniera quasi casuale, alla corte di una compagnia circense itinerante. Qui apprenderà i segreti del mentalismo, grazie ai quali troverà un enorme successo, basato, però, su inganni e illusioni sempre più grandi e sempre più pericolosi.
Del Toro con questo film firma uno dei progetti più ambiziosi e allo stesso tempo più riusciti della sua carriera, che stupisce in primis per la maturità e la raffinatezza della messa in scena nella sua totalità: la regia, infatti, è composta e classica, fluida e impeccabile, caratterizzata in numerosissime occasioni dal piano sequenza che, però, non scade mai nel mero sfoggio virtuosistico, ma al contrario resta sempre funzionale all’accompagnamento del racconto. Il cineasta messicano dimostra per l’ennesima volta – e forse mette a tacere definitivamente chi lo accusa di aver “rubato” l’Oscar del 2018 – di essere uno degli artisti del panorama mainstream più importanti della sua generazione, in grado di raggiungere una consapevolezza stilistica e comunicativa totale, sia per quanto riguarda la forma (e questa non è certamente una sorpresa), sia per quanto riguarda la sostanza narrativa, a detta di molti vero e proprio tallone d’Achille delle ultime opere di del Toro.
Parlando appunto di linguaggio formale, Nightmare Alley si inserisce coerentemente nel discorso cromatico iniziato già con Crimson Peak, ampliandolo e regalando una palette eccezionale, esaltata da un utilizzo della luce in ogni sua sfumatura più che eccellente: tagli di luce che vanno dal soffuso al marcatissimo, chiaroscuri che giocano sapientemente con l’espressività degli attori, penombre fortemente evocative, ma anche luci diurne sorprendentemente poetiche. L’arsenale a disposizione di del Toro, insomma, è vastissimo e magistralmente impiegato in ogni contesto.
Menzione d’onore anche per le scenografie che, in particolar modo nella prima parte circense, riprendono il gusto gotico così caro al regista, creando sequenze dall’impatto visivo sconcertante, come l’emblematica ricerca della Bestia nella casa degli orrori. Non vi è solamente il look dark però: da segnalare, infatti, è anche la location dell’ufficio di Cate Blanchett, un vero e proprio gioiello scenografico, così come il salone dove il protagonista si esibisce nei suoi incredibili show nella seconda parte della pellicola.
In sintesi, il regista riesce a gestire in maniera perfetta tutti gli elementi della sua messa in scena per confezionare un film dalla potenza visiva disarmante, che vive dell’armonia tra movimenti di macchina dolcissimi e calibratissimi, un comparto fotografico da antologia, musiche azzeccatissime e un reparto scenografie sugli scudi.
Altro grandissimo punto di forza di Nightmare Alley è, senza dubbio, il cast, formato da un gruppo di attori che è quello delle grandi occasioni: partendo dai personaggi secondari, Toni Colette, Ron Perlman (fidato attore-feticcio di del Toro ormai dagli anni ’90), Willem Dafoe e David Strathairn rubano indiscutibilmente la scena nei panni della compagnia circense per tutta la prima metà di film; Richard Jenkins offre un’interpretazione molto intensa e convincente, nonostante sia chiaramente un carattere di contorno; Rooney Mara ha il volto e la fisicità perfetti per il ruolo della classica donna angelica simbolo di innocenza, elemento che arriva direttamente dalla tradizione noir.
Chi si staglia, però, al di sopra di queste prove già eccellenti è la coppia Bradley Cooper – Cate Blanchett, con la seconda che veste gli abiti di una femme fatale totale, estremamente sensuale e ambigua, tentatrice e sfuggente, dimostrando ancora una volta di essere un’attrice di una caratura unica ed eccezionale.
Allo stesso modo Bradley Cooper, nel ruolo del protagonista, sfoggia un physique du role d’altri tempi, regalando forse una delle sue migliori interpretazioni degli ultimi anni, in un ruolo sicuramente non semplice: il riferimento a Bogart e all’iconico look degli investigatori noir, infatti, è palese e il rischio di farsi schiacciare da questo peso è sempre dietro l’angolo. Fortunatamente, però, Cooper non cade in questa pericolosa trappola e riesce a tratteggiare ottimamente e con sicurezza un personaggio estremamente sfaccettato e complesso, firmando più di qualche momento attoriale veramente di livello.
Un ulteriore elemento convincente di questa pellicola si trova nella sceneggiatura che, nonostante la corposa durata complessiva di 150 minuti netti, risulta efficacissima nel mantenere un ritmo narrativo costante e adeguato, piazzando i giusti colpi di scena nei giusti momenti, creando sapientemente la tensione per le scene più concitate e non perdendo mai per strada elementi tirati in causa nel racconto, fino al meraviglioso – e amarissimo – finale, scritto e messo in scena in maniera perfetta.
Se si volesse comunque trovare il proverbiale pelo nell’uovo si potrebbe parlare, forse, di un lieve squilibrio narrativo in questa sceneggiatura chiaramente bipartita, con il film che ingrana in maniera consistente solo dopo la metà, regalando in ogni caso una prima parte estremamente suggestiva e funzionale al racconto, ma che può spaesare alcuni spettatori non pienamente avvezzi al mezzo, in quanto inizialmente non è chiarissimo dove il film voglia andare a parare.
Per spendere qualche brevissima parola sul contenuto tematico dell’opera, del Toro prosegue nell’analisi dei suoi topoi abituali: il ribaltamento di ruoli tra l’uomo e il mostro (vero e proprio leitmotiv dell’opera del regista) e la ricerca di una dimensione ultra-corporea e sovrannaturale. Va però riconosciuto come la riflessione principale ruoti intorno al dualismo verità – illusione che, in questo film, diventano quasi elementi interscambiabili tra loro, in quanto la realtà percepita dai personaggi si basa segretamente sempre su inganni e trucchi, al punto che l’illusione stessa prende il posto della verità, sovvertendo completamente l’ordine convenzionale delle cose, lasciando i protagonisti persi in un mondo dedalico e indecifrabile, come vuole la tradizione dei migliori noir.
Questo ragionamento sicuramente complesso viene messo in scena da del Toro con la geniale quanto semplice metafora degli specchi, inquadrando contemporaneamente i soggetti (ovvero la realtà) e i loro molteplici riflessi (l’illusione), creando molto spesso un’immagine nella quale non è così immediato il riconoscimento dell’origine del riflesso.
In conclusione questo Nightmare Alley, sponsorizzato di recente anche da sua maestà Martin Scorsese, è un film totale, ricco e compiuto, che rappresenta forse uno dei momenti più alti della filmografia del regista messicano, che si conferma tra i più grandi maestri del cinema di genere grazie a uno stile inconfondibile costruito tramite un percorso artistico battuto ormai da trent’anni e che continuerà con il Pinocchio targato Netflix a fine 2022, aspettando – o sarebbe meglio dire sperando disperatamente con tutto il cuore – che il tanto atteso e travagliato adattamento del romanzo lovecraftiano At the Mountains of Madness possa, finalmente, uscire dal mito e diventare realtà.
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