VERTIGINI DELL’OCCHIO E DELLA MENTE

Anna Fox (Amy Adams) è una psicologa che vive autoreclusa tra le mura di casa poiché affetta da un’acuta forma di agorafobia che le impedisce di uscire e affrontare il mondo esterno. La scossa al torpore depressivo giunge quando, osservando i vicini del palazzo di fronte, assiste al presunto omicidio di una donna misteriosa che lei stessa ha ospitato poco prima, ma che per tutti sembra non essere mai esistita.

Tra il titolo originale, The Woman in the Window – omonimo al romanzo di A.J. Finn e al noir allucinato di Fritz Lang del 1945 -, e la traduzione italiana, La donna alla finestra, che spalanca il gioco di specchi e assonanze con La finestra sul cortile (1954), il film dell’inglese Joe Wright guarda decisamente a Hitchcock, agli inganni dello sguardo, a segni e verità nascoste nelle immagini. Le analogie con il regista londinese possono essere scorte da subito, a cominciare proprio dall’occhio come figura chiave: dal primissimo piano sulla pupilla spalancata di Anna, simile alla palpebra spiraliforme che apre i titoli di testa di La donna che visse due volte (Vertigo,1958), e, ancor di più, al vitreo e sbarrato bulbo oculare della bionda Marion Crane riversa sul pavimento del bagno di Psyco (1960). Quello di Anna è da subito uno sguardo dubbio, ambivalente, spettrale: fisso su qualcosa e al tempo stesso smarrito nel vuoto, lo sguardo della vittima e del colpevole, di un corpo e di un fantasma in disequilibrio sulla soglia indecidibile tra il mondo dei vivi e dei morti.

È lo sguardo monoculare del cinema, che nell’incipit si muove felpato carrellando tra gli stanzoni vuoti dell’appartamento, scoprendo sulla Tv le immagini a scatti, al rallenty, proprio de La finestra sul cortile. Joe Wright dichiara immediatamente l’intento di costruirne una sorta di remake al femminile, dove le ossessioni hitchcockiane e l’avventura dello sguardo/vertigine incontrano le trincee di solitudine, il dissesto mentale e le nevrosi patologiche del mondo cittadino contemporaneo. Scegliendo però l’esatta sequenza in cui Thorwald, l’assassino, tenta di strangolare il fotografo Jeffries (James Stewart), il regista si mostra pienamente consapevole del rischio di finire strozzato nel confronto impietoso con il capolavoro originale. È quello che succede? Sì e no. Dipende, appunto, con che occhi guardiamo.

Più che sulla filosofia di sir Alfred – il mito della caverna platonica che proietta illusioni e desideri del reporter-spettatore sugli schermi del cortile di fronte – il film piazza l’obiettivo su un (ri)quadro comportamentale che pone i riflettori sulla personalità lacerata e la fisiognomica del volto sfibrato e abbruttito di Anna. Il tutto ci viene mostrato sotto una lente distorta che ne rifrange il profondo disagio e l’instabilità emotiva, ma anche lo sguardo incrinato e la paralisi esistenziale (dunque non il semplice incidente alle gambe che immobilizzava postura e punto di vista di James Stewart nel capolavoro di Hitchcock).

In un fitto apparato cinefilo di clip di classici in bianco e nero che rinforza le derive della coscienza e della psiche: dall’interpretazione dei sogni visivi di Dalì in Io ti salverò (1945) – con un altro occhio surreale, tagliato con le forbici, sovrapposto a quello di Anna – all’incubo della Vertigine (1944) di Otto Preminger.

Dopo Cecilia ne L’uomo invisibile (2020) e Cassie in Una donna promettente, Anna è un’altra donna vessata e in trappola che non viene creduta, e pertanto è costretta ad agire da sola – diabolico contrappasso – nell’affrontare il pericolo che scardina la sua solitudine.

Uscito dal bunker di Churchill (L’ora più buia, 2017), Joe Wright si chiude dentro la panic room del thriller psicologico a misura del singolo. Il regista si confina in una precisa tendenza del cinema contemporaneo – che ha il suo acme in Sto pensando di finirla qui (2020) di Charlie Kaufman – che costruisce gli ambienti narrativi modellandoli sulla forma mentis del personaggio, sviluppando l’intreccio dentro un’ambigua e claustrofobica soggettiva cerebrale – e sensoriale – dei protagonisti (non sono casuali i frammenti de La Fuga (1947) di Delmer Daves, il noir della coppia Bogart-Bacall girato interamente in soggettiva per tutta la prima parte).

Come nella schizofrenica dissociazione spazio-temporale dell’anziano di The Father (2020), e nell’isolamento acustico e sociale del batterista di Sound of Metal (2020), anche Anna sconta una clausura individuale e una dissonanza cognitiva che mette in crisi l’affidabilità del suo sguardo, la bontà delle intuizioni investigative e la leggibilità degli eventi. Aldilà dei sintomi hitchcockiani –  Anna è agorafobica come Stewart in Vertigo – è questa la molla più interessante, che accende un intrigo giallo dal grande potenziale teorico – il ruolo di immagini, scatti e zoomate nel decrittare indizi e prove – purtroppo largamente sfilacciato in uno sviluppo poco convincente, talvolta implausibile, dello script di Tracy Letts (Killer Joe).

Un peccato, visto il cast d’eccezione (non solo Amy Adams, ma anche Julianne Moore, Gary Oldman, Jennifer Jason Leigh, Anthony Mackie), e un comparto tecnico di lusso: la fotografia cangiante di Bruno Delbonnel che alterna penombra e bagliori e mescola filtri cromatici e simmetrie, lo score sinistramente saltellante del burtoniano Danny Elfman, la scenografica magione di evidente matrice hitchcockiana (spirali di scale, finestre e muri di mattoni, tetti, lucernari e seminterrati). Eppure il tutto non è valorizzato al meglio da una regia non sempre ispirata, che spesso non va oltre la semplice citazione (il celebre carrello-zoom a piombo sulle scale di Vertigo, qui in discesa rallentata). E da un generale andamento sbrigativo incapace di distaccarsi dagli standard di un medio psyco thriller con flashback, spiegoni e plot twist al punto giusto (?), tra grossolane macchie di sangue a tutto schermo, personaggi malriusciti  – quello della Moore, che fa continuamente al verso a Jane Russell – e poliziotti decisamente tonti e poco credibili.

Per i puristi hitchcockiani, atmosfere e stile del capolavoro originale restano a distanza siderale (per una rielaborazione moderna, meglio recuperare il mélo alla finestra tra Joaquin Phoenix e Gwyneth Paltrow in Two Lovers (2008) di James Gray).

Per chi cerca evasione con qualche brivido thriller infuso di torsioni psicologiche e un po’ d’azione, potrebbe bastare.

Il film è disponibile su Netflix. Sulla piattaforma, per proseguire con i remake hitchcockiani, trovate anche Rebecca di Ben Wheatley.

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Daniele Badella, Redattore