Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks out, Gabriele Mainetti torna al cinema con La città proibita, lasciando che Oriente e Occidente si uniscano in una commistione di generi.
Mei (Yaxi Liu) è una secondogenita e ha vissuto tutta la vita in incognito a causa della politica cinese del figlio unico. La ragazza, esperta in arti marziali, arriva a Roma per cercare sua sorella, invischiata in un giro di prostituzione e recentemente scomparsa. Le sue vicissitudini si intrecceranno con quelle di Marcello (Enrico Borello), cuoco della trattoria di famiglia, che gestisce l’attività con sua madre (Sabrina Ferilli) dopo la sparizione di suo padre (Luca Zingaretti).
Mainetti si misura ancora una volta con la sperimentazione, dimostrando che anche nel nostro Paese è possibile uscire dalla comfort zone, allontanarsi dagli stereotipi e realizzare prodotti dal respiro internazionale. Per tali ragioni non mancano i richiami a Tarantino, a Carpenter e a Bruce Lee.
Il lungometraggio mescola l’azione al melodramma, passando per la commedia pura (basti guardare il momento in cui il cattivissimo boss Wang balla e canta musica rap) e arrivando al romanticismo. La regia aderisce perfettamente ai diversi toni, dimostrandosi particolarmente efficace nei momenti dedicati ai combattimenti.
Siamo catapultati in una Roma inedita, nella quale coesistono tante culture che possono convivere e mescolarsi pacificamente, se non fosse per i vecchi “dinosauri” come Annibale, un malvivente che sfrutta gli immigrati ritenendoli degli invasori. Il personaggio, interpretato da Marco Giallini, è probabilmente dal punto di vista psicologico quello meglio riuscito, in quanto incarna la rappresentazione degli ostacoli che impediscono la completa integrazione tra le differenti tradizioni.
Roma e la Cina diventano un unicum, si aggrovigliano indissolubilmente e riescono a rendere un’immagine moderna della nostra civiltà. Emblematica è la sequenza in cui Mei attraversando dei sotterranei raggiunge un bordello, per poi finire in un ristorante. Lo spettatore immagina di trovarsi a Pechino ma, aperta la porta del locale, scopre di essere nel quartiere Esquilino della capitale italiana.
A dominare la scena è il Kung Fu, praticato dalla abilissima protagonista e arricchito fantasiosamente dal regista con l’utilizzo di armi improvvisate, come un cd spezzato a metà o un wok pieno di noodles. La sceneggiatura (curata da Stefano Bises, Davide Serino e dallo stesso Mainetti) risulta a tratti poco approfondita, specialmente sul piano dei rapporti interpersonali. Questa mancanza viene però compensata dalla continua ricerca di movimento e di suspense, che rende comunque godibile la storia.
La dinamicità si riflette anche sui due interpreti principali, che si spostano per le strade con un motorino come dei contemporanei Gregory Peck e Audrey Hepburn e veicolano un messaggio di uguaglianza in maniera piuttosto semplice, ma al contempo immediata.
Alcune canzoni della colonna sonora, presentate con l’espediente dell’extradiegetico che si trasforma in diegetico, per quanto improbabili si rivelano sorprendentemente azzeccate (ad esempio La canzone dell’amore perduto di De André o E se domani di Mina), esattamente come la coppia al centro della vicenda.
Il film si dimostra nel complesso un esperimento dagli esiti positivi, un viaggio tra mondi diversi e compatibili che influisce su tutte le scelte stilistiche, un ponte percorribile tra la “Città eterna” e la “Città proibita”.

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