Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli, poeta e sceneggiatore, vincitore del Premio Strega Giovani per Tutto chiede salvezza (2020), La casa degli sguardi è l’esordio alla regia di Luca Zingaretti.
Il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024 e al Bif&st 2025.
Marco (Gianmarco Franchini) ha vent’anni e vorrebbe diventare un poeta perché “da piccolo ero tutto un sogno io, per questo mamma diceva che potevo fare il poeta”.
La madre però è morta, lasciandolo in balia dell’insicurezza, della rabbia, di un padre (Luca Zingaretti) che, nonostante gli sforzi e la pazienza, sembra incapace di riempire quel vuoto incolmabile.
Marco trova conforto nell’alcool, unico amico in un mondo in cui si sente solo, incompreso e in cui nessuno è mai stato ad un reading di poesie.
Per evitare le ripercussioni di un incidente stradale da lui causato mentre era in stato di ebbrezza, inizia a lavorare presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Incontra Giovanni (Federico Tocci), Claudio (Alessio Moneta), Luciano (Riccardo Lai), Paola (Chiara Celotto), Stefano (Marco Felli) e il piccolo Alfonso, col quale comunica attraverso un vetro, grazie a disegni, sorrisi e gesti. Sono personaggi accennati, che spesso corrispondono a stereotipi, ma che permettono al giovane di scoprire il valore della collaborazione, di confrontarsi con la perdita altrui, sentirsi finalmente utile, “parte di”.
A mio avviso, questo neonato spirito di squadra, esaltato in numerose sequenze, sembra svanire quando il protagonista è in difficoltà. È evidente infatti, anche dopo svariati episodi di indisciplina sul luogo di lavoro, che la tentazione che il ragazzo prova non appena compare l’insegna di un bar è forte, più forte della paura di deludere. Eppure, nessuno interviene, nessuno cita centri di recupero o gruppi di sostegno che potrebbero aiutarlo ad uscire dalla dipendenza.
Marco continua ad allineare sul tavolo gli shot come se fossero soldatini, prima di rimettersi al volante, sfidando la morte per l’ennesima volta, forse l’ultima.
Affogherà egoisticamente nella propria disillusione o si accorgerà che quel bacio inaspettato, quell’abbraccio paterno, quella poesia letta ad uno sconosciuto su una panchina, quella corsa in tram a tarda sera, sono qualcosa per cui vale la pena vivere?
Basta davvero questo per strappare un ventenne all’alcolismo?
L’immancabile panoramica a volo d’uccello sui tetti di Roma illuminati dai primi raggi del sole, sembra garantire il lieto fine.
Conquistato dalle pagine autobiografiche di Mencarelli, Zingaretti (Il Commissario Montalbano e recentemente apparso in La Città Proibita) decide di cimentarsi per la prima volta dietro la macchina da presa.
Nella stesura della sceneggiatura, scritta assieme a Gloria Malatesta e Stefano Rulli, sacrifica alcuni elementi del testo originale, sostituendoli con altri più funzionali, a suo dire, al codice cinematografico.
Gli appassionati del libro potrebbero ad esempio storcere il naso davanti all’assenza della madre, viva nel romanzo. Alla signora che in sala ha alzato la mano e posto una domanda a riguardo, il regista ha risposto di aver voluto evitare che il complesso edipico oscurasse il tormentato percorso del protagonista. La figura materna permane nel ricordo ed esercita una grande influenza proprio a causa della sua mancanza.
Zingaretti punta i riflettori sulla capacità di rialzarsi, di guardarsi in faccia e accogliere il dolore senza fuggirlo.
Scommette su Gianmarco Franchini (Adagio), vero colpo di fulmine avuto durante i casting, che porta sullo schermo le ambivalenze di un giovane al contempo fragile e forte, feroce e tenero.

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