Una lunga panoramica di Milano, accompagnata dai titoli di testa e dalle musiche di Santi Pulvirenti, apre il terzo film di Andrea Di Stefano, già regista di Escobar con protagonista Benicio Del Toro e The Informer – Tre secondi per sopravvivere, realizzato con un cast internazionale. L’ultima notte di Amore, presentato durante l’ultimo Festival di Berlino, narra la storia del poliziotto Franco Amore, che si dice essere Amore di nome e di fatto. Giunto ormai all’ultima notte di servizio prima della pensione, come prevede ogni buon film di genere che si rispetti, verrà coinvolto in una serie di avvenimenti che renderanno quella notte più lunga e difficile di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare, mettendo in pericolo tutto ciò che gli è più caro.
Per questo ritorno in patria Di Stefano si affida al talento di Pierfrancesco Favino, realizzando un noir ambientato in una Milano che viene presentata come se fosse New York. Una città mostrata sin dall’inizio nei suoi chiaroscuri, con i contrasti tra le luci delle strade e il buio degli edifici e del nero degli indumenti indossati dai protagonisti. Delle contrapposizioni visive che accompagneranno lo spettatore per tutto il film e che caratterizzeranno la lunga notte che il poliziotto Amore dovrà affrontare, le scelte che dovrà compiere, che pongono più di un quesito etico e che comportano nelle loro conseguenze sempre dei chiari e degli scuri. La scelta di ambientare la vicenda a Milano non è casuale, non solo perché il capoluogo lombardo è la città più internazionale d’Italia, ma anche perché è stata la scenografia di alcuni dei migliori polizieschi della storia del cinema italiano come Milano Calibro 9 e La mala ordina di Ferdinando Di Leo, film che Di Stefano omaggia e usa come ispirazione, pur cercando di innovare e mettere in scena un noir italiano come non si vedeva da tempo. Questa rielaborazione del passato viene sottolineata dalle parole di Favino riferite alle macchine usate durante il film e che suonano quasi come metacinematografiche in termini di innovazione: “incredibile la tecnologia di queste macchine nuove”. Pur dipingendo una Milano meno violenta e decadente rispetto ai film di Di Leo, la città, esattamente come nei film del regista pugliese, viene mostrata nella sua continua evoluzione economica in cui un ruolo importante è giocato dalla corruzione e dal marciume della criminalità.
Di Stefano costruisce perfettamente la discesa nell’incubo metropolitano di Amore, con un sapiente uso del flashback in grado di ribaltare il significato delle immagini viste in precedenza. Il protagonista, interpretato da un sempre straordinario Pierfrancesco Favino, è di fatto un uomo buono, che in “35 anni di onorato servizio non ha mai sparato”, come viene spesso sottolineato durante il film. Una persona a suo modo anche ingenua, fattore che gli ha impedito di fare carriera all’interno della polizia, che ha fiducia nella parola delle persone e per questo accetta incarichi senza davvero sapere a cosa stia andando incontro, pur di racimolare qualche soldo in più. Mansioni a cui viene spinto da tutte le persone che lo circondano, in primis la moglie Viviana, interpretata da una brava Linda Caridi, che vedono nella figura di Amore la possibilità di un riscatto sociale ed economico. Un’ingenuità che viene sfruttata tuttavia per incastrare il protagonista, durante la sua ultima notte prima del congedo della pensione, e che accompagnerà Amore fino al termine della pellicola, in cui crede davvero di poter assistere ad una nuova alba nella sua vita, con un finale aperto che sembra tuttavia indicare come alla fine saranno sempre gli strati meno abbienti della società a pagare per tutti, perdendo tutto ciò che gli è più caro, e che non è concesso loro sognare un altro stile di vita diverso da quello a cui appartengono per nascita.
Nonostante quasi tutto il film sia ambientato all’aperto, la forza della pellicola è quella di mettere in scena la maggior parte degli eventi in un luogo solo ovvero nel sottopassaggio di uno svincolo autostradale, dove tutti i personaggi progressivamente interagiscono, creando un thriller “da camera” e aumentando notevolmente la tensione, creando situazioni pronte a esplodere da un momento all’altro. Un microcosmo illuminato dalle luci della polizia e delle strade, dove piano a piano l’incubo prende forma. Di Stefano attualizza il noir rispetto ai film di Di Leo tenendo conto di come la città sia cambiata in cinquant’anni, coinvolgendo attività criminali da parte dei cinesi e costruendo un intreccio notevole con tanto di colpi di scena ben orchestrati. Nelle poche scene di sole il cambio di atmosfera viene accentuato dai cambi del clima e di conseguenza della fotografia, con una variazione verso il grigio durante i dialoghi che trasmettono tensione, a sottolineare l’arrivo imminente di una tempesta.
Un plauso speciale va fatto alle musiche di Santi Pulvirenti, molto coerenti con il tono del film, mentre ancora una volta si ritrovano diverse problematiche nella presa diretta e nel montaggio sonoro, con alcuni dialoghi al limite del comprensibile come purtroppo spesso accade nelle produzioni italiane. All’interno della pellicola il regista sfrutta anche la rivalità tra polizia e carabinieri e mette in mostra il marcio presente in entrambi gli schieramenti, sempre pronti a negare e a difendere a spada tratta i propri colleghi per partito preso. Se questo film possa dare nuova linfa vitale al genere noir in Italia è ancora presto per dirlo, ma opere come questa sono la dimostrazione di come il cinema italiano sia in continua evoluzione e sia in grado di produrre ottimi film di genere che risultano essere grandi opere in senso assoluto.
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