La Dreamworks negli ultimi anni sembra aver completamente perso quella spinta innovativa che l’ha contraddistinta nei suoi primi 15 anni. Lo studio di Glendale negli anni 2000 infatti è stata una delle principali contender di una Disney in crisi per il ruolo di studio dominante nel settore animato. Gli altri due outsider, Pixar e Blue Sky Studios, sono stati in momenti diversi inglobati nella multinazionale Disney, la prima è divenuta una sorta di studio gemello per la casa madre, la seconda invece è stata smantellata nel 2021 dopo anni di attività sottotraccia. Alla Dreamworks è toccato un destino diverso, dopo un progressivo disinteressamento da parte dei suoi fondatori lo studio a partire dalla seconda metà degli anni ’10 conosce un tristissimo ristagno creativo, crogiolandosi su storie infantili, una comicità fintamente irriverente e un recupero poco convinto dei suoi personaggi di successo (emblematico è il caso Spirit, da drammatico esperimento di cinema quasi muto a pigrissima serie per bambini). Nel decennio precedente invece, dopo il tornado Shrek, uno dei principali punti di svolta per il genere, la Dreamworks aveva inanellato una serie di successi commerciali con Madagascar, Kung Fu Panda e Dragon Trainer, riscontrando anche successi di critica e generando sequel all’altezza se non migliori dei precedenti. Negli ultimi anni gli unici film ad avere avuto un minimo di risonanza commerciale (Trolls, Baby Boss) non hanno certo inciso sul pubblico come i loro fratelli maggiori, mentre l’unico film ad aver goduto di alta considerazione da parte della critica è stato Il gatto con gli Stivali 2, fortunatissima seconda avventura del gatto nato comparso la prima volta in Shrek 2
Tra i film sopracitati, Kung Fu Panda è stato particolarmente fortunato, avendo generato un franchise composto da una saga cinematografica giunta al quarto capitolo (che in totale ha superato i due miliardi di dollari di incasso), tre serie televisive con un totale di più di 150 episodi e 5 tra cortometraggi e special televisivi, senza contare videogiochi, attrazioni e merchandise vario.
Il primo film del 2008 risultava essere un perfetto esempio di congiunzione tra animazione occidentale e cultura orientale. La storia del panda Po, cuoco nella tavola calda di famiglia col sogno di diventare maestro di kung fu, univa la struttura classica del battle shonen giapponese alla comicità slapstick con animali in stile Looney Tunes; il capitolo successivo del 2011 alzava le vette drammatiche andando a sviscerare la vicenda familiare di Po e andando a sfiorare il concetto di genocidio; il terzo film pur avendo meno respiro narrativo e volando assai basso proponeva ancora scontri accattivanti, una punta umoristica interessante e soprattutto riflessioni importanti sul tema della paternità, naturale e putativa, presenti fin dal primo film. Di tutto questo nel quarto capitolo troviamo pochissime tracce purtroppo.
In questo quarto capitolo, Po è ormai affermato nel ruolo di Guerriero Dragone, ma il suo maestro Shifu gli comunica che il suo destino è di prendere il ruolo di Spirito Guida che fu del Maestro Oogway. Tuttavia, la Valle della Pace è minacciata da un nuovo nemico: la Camaleonte, con il potere di assimilare tutte le più grandi tecniche di kung fu dei grandi maestri. Po, insieme alla furba ladra Zhen, tenterà di contrastarla.
La trama sembra richiamare la classica struttura della nuova saga di uno shonen: si presenta un nemico più forte del precedente e il nostro protagonista deve sperimentare nuove tecniche e nuove alleanze per riuscire a sconfiggerlo. Se nei precedenti capitoli il nostro eroe mirava prima a realizzare il suo sogno di diventare maestro di kung fu, a cercare la verità sulla sua famiglia e infine a coniugare le sue due essenze (di panda e di combattente) qui troviamo un Po intento a mantenere la sua posizione e la sua comfort zone di lottatore, rifiutandosi di andare oltre e di intraprendere la nuova carriera di Guida Spirituale. Il film gravità completamente sul protagonista e sulla sua nuova alleata Zhen, un personaggio certamente simpatico e che può trovare i suoi fan (leggasi: acquirenti di peluche) ma è lontana anni luce dall’iconicità dei Cinque Cicloni, qui del tutto scomparsi e confinati in un cameo finale (senza dialoghi), mentre Shifu e i due padri di Po vengono relegati ad un ruolo di mere macchiette (il primo alle prese con le sue frustrazioni e gli altri con i loro problemi nella co-gestione di un figlio così particolare). Quanto agli antagonisti, vero punto di forza della saga fin dal primo capitolo, la Camaleonte chiaramente sfigura davanti ai suoi predecessori Tai Lung, Lord Shen e Kai, che ritornano in veste di “prigionieri” della nuova nemesi in una scena che sembra richiamare Spiderman: No Way Home (e non può essere un complimento), anche in questo caso senza dialoghi (evidentemente il budget stringe). Il problema è che il conflitto stavolta si limita veramente alla superficie, non c’è possibilità di scavare in profondità o di trovare ulteriori livelli di lettura. Così come negli ultimi prodotti Disney e Pixar sembra mancare completamente il coraggio.
Appare sempre più evidente come uno studio capace per anni di alzare sempre di più l’asticella non riesca più a sfruttare né le proprie idee migliori, né i propri successi né tantomeno le debolezze altrui. La Dreamworks che nel 2001 aveva dimostrato alla Disney di poterla battere sul terreno delle fiabe e del musical qui sembra deporre completamente le armi, anche davanti ad una Disney/Pixar in crisi per lasciare terreno alle più aggressive Illumination e Sony. Lo scenario dell’animazione mainstream statunitense appare abbastanza desolante.
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