Giunti al 2023 possiamo ormai considerare Martin Scorsese un patrimonio per l’intera umanità: è una fortuna che questo sorridente “nonnino” ottantenne sia ancora tra noi, a sessant’anni dal suo primo cortometraggio universitario; è una fortuna che la sua produzione cinematografica proceda ininterrotta da decenni, e che ancora oggi colui che può essere considerato uno tra i più grandi registi viventi (e non solo) sia nel pieno della sua attività – l’unico dei movie brats a mantenere una tale frequenza, assieme a Steven Spielberg; è una fortuna, insomma, poter vivere con trepidazione l’attesa di un nuovo film di Martin Scorsese, per poi poter dire “Io c’ero”.

Killers of the Flower Moon (2023) è il ventiseiesimo lungometraggio di finzione diretto da Martin Scorsese, adattamento dell’omonimo saggio scritto dal giornalista americano David Grann, una raccolta esaustiva e coinvolgente di fonti che ha l’obiettivo di narrare una drammatica storia realmente accaduta, con una prosa tagliente, tanto asciutta quanto suggestiva e carica di tensione. Il film è stato presentato in anteprima mondiale e accolto con una standing ovation di ben nove minuti alla 76° edizione del Festival di Cannes nel maggio del 2023. Dopo l’esperienza di The Irishman (2019) con Netflix, che aveva garantito grande libertà produttiva al regista newyorkese ma una distribuzione in sala penalizzata dal veloce approdo in piattaforma, la collaborazione tra Paramount e Apple TV+ ha consentito una simile libertà creativa, associata questa volta a una distribuzione in sala degna di un’opera di tale caratura.

La sceneggiatura di Martin Scorsese ed Eric Roth si pone il compito di raccontare una pagina buia della storia degli Stati Uniti, fatta di legami enigmatici, soldi, potere, criminalità e spiritualità. Basterebbe mettere in fila questi termini per tracciare un legame con il resto della filmografia di Scorsese e comprendere le ragioni dietro alla realizzazione di questo film. Al centro del racconto si trova la Nazione Osage, un popolo di nativi americani accidentalmente arricchitosi con il petrolio, l’oro nero sgorgante dalle loro terre, acquistato con lauti compensi dai bianchi. Si tratta della popolazione con il reddito pro capite più alto al mondo, caratterizzata da uno stile di vita fatto di lusso e sfarzo. Come insegna la filmografia di Scorsese, dove risiedono tanti soldi risiede il potere, di conseguenza c’è sempre qualcuno in agguato, pronto a prendere una fetta di una torta così succulenta. Una serie di omicidi negli anni Venti del Novecento mina le basi della Nazione Osage e ben presto l’autorità federale interviene per far luce su dei crimini inspiegabilmente irrisolti.

Prima ancora di raccontare una storia fatta di criminalità, massoneria (con una loggia il cui pavimento ricorda quello della Black Lodge di Twin Peaks), di un’organizzazione degna dei gangster movie anni Novanta di Scorsese (e non solo, considerando un’inquadratura che richiama esplicitamente il film di Brian de Palma del 1987, The Untouchables, con un De Niro intento a farsi radere) – al centro di Killers of the Flower Moon si trova la descrizione della cultura della Nazione Osage, portata avanti con rispetto e rigore quasi documentaristico. Il film inizia con un caratteristico rito funebre e di lì in poi la rappresentazione è un’esplosione di colori, suoni e atmosfere lontane da una visione del mondo occidentalo-centrica, che ci presenta una dimensione entrata sì a contatto con il mondo europeo-americano, ma comunque capace di mantenere ben salde le proprie radici nella tradizione. L’esplorazione priva di giudizi esotici su “mondi lontani” era, tra le altre cose, anche al centro dell’ultimo grande capolavoro di Martin Scorsese, Silence (2016), e come in quel caso è carica di immagini suggestive, tanto preziose nella memoria di ciò che è stato, quanto ben presto macchiate da un sistema di prevaricazioni e di rincorsa disumanizzante al potere.

Il film esprime al meglio il suo potenziale nella rappresentazione binaria tra ciò che appartiene al mondo “rosso” degli Osage e ciò che è “bianco”. Ernest Burkhart è interpretato da un Leonardo DiCaprio rozzo, rugoso, con i denti storti e lerci, ed è tutt’altro che moralmente ineccepibile; egli prova, su consiglio dello zio William Hale (Robert De Niro) – definito “Re” per il suo artefatto e disonesto prestigio sociale – a conquistare una ricca donna Osage, Mollie, interpretata da Lily Gladstone. Lei al contrario è aggraziata, colta e raffinata, perfetta nei suoi lineamenti puliti e armoniosi. Ma ciò che maggiormente divide i due è la purezza d’animo, la spontaneità e la sincerità negli intenti dietro ogni azione compiuta. Questi ultimi elementi si traducono in un differente rapporto con la spiritualità e la religione: gli Osage credono in Wa-kon-tah, una divinità che rappresenta l’espressione massima dell’equilibrio con la natura, con il sole, la luna, il fuoco e i fiori, visti come elementi sacri da curare e conservare; quando invece Ernest Burkhart si dichiara cattolico o William Hale si appella alla parola di Dio, appare evidente come il sentimento sia meno profondo, o come nei casi estremi fare riferimento alla vita o al pensiero di Cristo in un discorso si riveli un’abile tecnica manipolatoria, uno strumento nelle mani di persone malvagie.

Sul piano del racconto, sembra fin troppo facile scagliarsi contro la mastodontica durata di 206 minuti e bollare questo film come “lento e noioso”. Sarebbe piuttosto utile fermarsi a ragionare sulle motivazioni dietro un tale minutaggio, sui risvolti in termini espressivi di questa scelta stilistica. Parlando di Oppenheimer (Christopher Nolan, 2023), un altro dei film più attesi dell’anno, la sua gigantesca durata di 180 minuti sembrava non essere sufficiente dinanzi al frenetico affastellarsi di informazioni, nomi, teorie, in un non sempre efficace dialogo costante con il mondo interiore del protagonista. Le tre ore e mezza di Killers of the Flower Moon, al contrario, non sono contrassegnate dalla frenesia ma da una costruzione narrativa accurata. Diversamente dal libro di David Grann, la sceneggiatura di Scorsese e Roth non lascia alcun dubbio sulle intenzioni di William Hale già dai primissimi minuti. Nonostante venga meno l’effetto sorpresa, il racconto non perde la propria forza in quanto lascia spazio a una tensione lancinante: non si sa mai veramente fino a che punto la meschinità di quest’uomo possa arrivare, mentre l’aria mortifera aggrava le sue note e diventa sempre più irrespirabile e ogni singolo elemento diventa un possibile preludio alla tragedia. Non è detta l’ultima parola fino all’arrivo dei titoli di coda, perché ogni minuto è sfruttato al meglio delle sue potenzialità espressive e significanti.

La regia di Martin Scorsese è giunta a questo punto della sua carriera a un apice di lucidità e consapevolezza del mezzo invidiabile. La macchina da presa è costantemente al servizio del racconto, con una precisione che spesso e volentieri lascia da parte i virtuosismi a cui pure Scorsese ci ha abituato nel corso della sua carriera, per consentire alle immagini di esplodere in tutto il loro potenziale evocativo e iconografico. Sconfinano nell’onirico le danze e i festeggiamenti degli Osage imbrattati dal petrolio sgorgante dal sottosuolo; le riprese di un incendio abbagliano e inebriano, nella loro brutalità, raggiungendo quasi la potenza del film I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978) di Terrence Malick. Non manca un crudo realismo, privo di censure, nel tentativo di dare un volto alla piaga che sta affliggendo la comunità Osage, che si tratti di un’autopsia a cielo aperto o di brandelli di corpi riesumati tra le macerie.

La finezza della regia emerge nei movimenti di macchina che elegantemente raccontano dei dettagli che rischierebbero di restare nell’ombra, ma anche, se non soprattutto, quando la macchina da presa si avvicina ai volti degli attori. Come anticipato, tornano i due pupilli di Scorsese che hanno caratterizzato due ere distinte della sua filmografia, Robert De Niro e Leonardo DiCaprio. Il primo è capace di diventare la perfetta incarnazione di un male dilagante, ingiustificabile, repellente; il secondo riesce a placare i suoi eccessi interpretativi per esplodere in momenti di altissima recitazione, con una capacità encomiabile nel dare vita a un uomo in balìa della tempesta, incapace di scegliere, un burattino nelle mani altrui lontano anni luce dalla redenzione. Indimenticabili nella loro autenticità sono i volti degli attori e delle attrici che incarnano la popolazione Osage all’interno del film, mentre la fisicità di Lily Gladstone è pronta a diventare simbolo dell’incedere della pestilenza mortifera che percorre tutta la pellicola. Il cast è completato da volti e corpi come quelli di John Lithgow, Brendan Fraser, Jesse Plemons, ma dove il film eccelle è anche e soprattutto nell’indistinta coralità delle enormi masse coinvolte in alcune sequenze di tutt’altro che semplice esecuzione, in una scenografia post-western attraversata più da automobili che da cavalli. Killers of the Flower Moon non manca di sorprendere neppure negli istanti finali, quando, forse per una sorta di auto-tributo, Martin Scorsese decide di mettere in scena l’istanza enunciativa del racconto in una forma del tutto inaspettata e sorprendente.

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Alessandro Corrao,
Redattore.