“Siamo in una nuova era. Benvenuti a Jurassic World!”. La solenne delibera del professor Ian Malcolm (Jeff Goldblum) al termine di Jurassic World – Il regno distrutto (2018), col T-rex a piede libero tra i leoni allo zoo e il Mosasauro a inghiottire i surfisti sotto le onde, già preparava il terreno alla dimensione open world e alla diffusione in free roaming di questo nuovo Jurassic World – Il dominio (Jurassic World Dominion) di Colin Trevorrow, regista del requel Jurassic World (2015) che dopo l’intermezzo di Juan Antonio Bayona ritorna al timone registico della saga dei dinosauri per ampliarne gli scenari e traghettarla, forse, alla degna conclusione.
FUORI DAL RECINTO
Quattro anni dopo l’eruzione lavica che ha spazzato via Isla Nublar e dalla fuga in campo aperto da celle e cantine di Lockwood Estate, i dinosauri vivono senza più barriere, liberamente sparpagliati al pascolo selvaggio in ogni latitudine del globo. La multinazionale della genetica Biosyn, capeggiata dalla vecchia volpe Lewis Dodgson (Campbell Scott) – al quale, nel primo Jurassic Park (1993), il programmatore Nedry prometteva il furto degli embrioni nascosti in una bomboletta di schiuma da barba -, grazie a ricche concessioni governative si occupa del recupero delle creature, gestite in una riserva sulle Dolomiti per essere studiate – almeno ufficialmente – come sorgenti di cure farmacologiche. Non tutto è ovviamente come sembra, e mentre una falcidiante invasione di locuste giganti riporta in azione la tenace dottoressa Ellie Sattler (Laura Dern) e lo schivo paleontologo Alan Grant (Sam Neill), ritroviamo la coppia formata da Owen Grady (Chris Pratt) e Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) isolata tra i boschi innevati del Nevada, per preservare l’habitat dei dinosauri (l’intelligentissima raptor Blue e sua “figlia” Beta) e proteggere da loschi affaristi l’ormai adolescente Maisie Lockwood (Isabella Sermon), il clone della figlia dell’ex-socio defunto di John Hammond. I due gruppi incroceranno forze e destini per sventare una minaccia nascosta e l’attacco di mastodontici carnivori mai visti prima…
Giungendo come pannello finale in coda alla nuova trilogia, Jurassic World – Il dominio si presta a un bilancio riassuntivo e a un giudizio finale sul franchise ripartito nel 2015. La sensazione è che – al di là dell’estasiata meraviglia fanciullesca, mantenuta (quasi) sempre viva e sgargiante, a cui “non ci si abitua mai” (lo dice Ellie Sattler davanti al dolce muso di un baby Protoceratops), garantita dall’aura insieme magica e (ultra)fotorealistica dei dinosauri, oggi come ieri padroni e tiranni incontrastati nell’imponenza suggestiva del grande schermo – non si sia davvero trovato un forte endoscheletro narrativo originale, unitario e coerente sulle cui spalle far reggere impianto, sviluppi, sostanza e ragion d’essere della nuova saga (del resto, anche il primo trittico, sotto l’egida più diretta di Spielberg, andò in calando fino a sfilacciarsi nell’inerzia puerile del Jurassic Park III). Da un episodio all’altro si è andati per tentativi abbozzati e progressive correzioni in corsa, nuovi assortimenti, variazioni e progetti ripresi o abortiti, seguendo la logica crossover di innesti plurimi e ibridazione compulsiva dei tecnici della InGen, nel realizzare in laboratorio il prodotto col magnetismo epidermico e il potenziale più attrattivo e spaventoso per il pubblico di giovanissimi e meno giovani.
JURASSIC FIGHT CLUB
Tuttavia, pur zoppicando tra compromessi e passaggi obbligati (lo spettro completo di rappresentanze di genere, orientamenti sessuali ed etnie compilato con facili automatismi) dell’odierno blockbuster all inclusive addomesticato per le famiglie (la surrogata e caramellosa (ri)composizione familista, dal sapore quasi disneyano, di Owen, Claire e Maisie, seduti davanti al fuoco ad arrostire marshmallow in camicioni di flanella), Dominion spicca come il capitolo più solido e maturo – il migliore, se dobbiamo azzardare – della nuova trilogia, che si libera sia dell’aria turistica incassata nelle rigide maglie del parco a tema del primo episodio (Jurassic World), sia delle striature dark da fiaba gotica intimista rintracciate nel trauma infantile di Fallen Kingdom (con l’Indoraptor come babau notturno degli incubi di Maisie), che restringevano eccessivamente il recinto dell’azione, sacrificando in parte il peso specifico delle creature. Il nuovo film acquista, invece, una dimensione di spettacolo multisetting ed extra-large che attraversa trasversalmente i generi e si sposta senza tregua da una location esotica all’altra. Con il respiro da globetrotter internazionale di un avventuroso Bond movie (la corsa in moto di Owen Grady inseguito dagli Atrociraptor nelle strade di Malta ricorda molto Daniel Craig in motocicletta tra le rocce di Matera, con annessa fuga dal piumato Pyroraptor sui lastroni di ghiaccio incrinato come nell’incipit di No Time To Die, 2021), e le sottotrame action – thriller incentrate su mercenari e trafficanti. E con un illecito black market e un fight club dei dinosauri segreto che – lo ha dichiarato Trevorrow stesso – vorrebbero richiamare le atmosfere dell’affollato melting pot della cantina di Mos Eisley di Star Wars.
LE ORME DEL CAPOSTIPITE
Dopo una roboante corsa con cui, sbalzando qua e là sulla mappa geografica raramente ci si annoia, inevitabilmente il plot (firmato a quattro mani da Trevorrow ed Emily Carmicheal) finisce per rintanarsi nel tipico schema del circuito impenetrabile e protetto (l’ecosistema della riserva BioSyn) scombussolato dall’irruzione emergenziale del caos di malcolmiana memoria (How the world will end è l’apocalittico titolo del nuovo libro dell’amato professore in giacca di pelle e occhiale fumè). Puntando sul lento incedere della pura suspense a pelle d’anfibio (Claire Dearing pedinata a pelo d’acqua da becco e zampe unghiute del therizinosauro), nella seconda parte del film la regia di Trevorrow si esalta come forse mai prima d’ora. Tra spessa luce naturalista e accesi cromatismi fluo, jump-scare al buio delle caverne e nella luce ambrata delle torce e repentini soprassalti sonori degli stinger assault nascosti nello score ansiogeno di Michael Giacchino. Nei movimenti di macchina tra busti e profili degli splendidi animatronics di John Nolan, che tengono a freno la pur eccellente CGI, sorvegliando i personaggi in tagli di inquadratura che – tra pupille che scrutano e dentacci sporgenti dietro i finestrini delle jeep – sono cloni fedelmente derivati dalle immagini mitopoietiche di Jurassic Park. Solo rigonfiate su modelli in scala “più grossi, più rumorosi e con più denti” (secondo le nuove direttive del bestiario della paura).
Ci si incunea nelle strettoie di gallerie e cunicoli sotterranei, dissotterrando la claustrofilia senza scampo (magnifiche le scene con i letali Dilofosauri, finalmente villain a pieno titolo dopo la comparsa come semplici ologrammi nel primo Jurassic World) e i salti di tensione del film spielberghiano: le interruzioni di corrente, i sistemi elettrici da ripristinare e la fuga in elicottero verso la salvezza, per poi lasciare il proscenio allo scontro tra titani dei predatori dominanti, notturno, fangoso e fragoroso nei ruggiti del potente sound design: un climax predicibile ma tremendamente efficace, con gli sfracelli assicurati dalla devastante mole oversize del Giganotosauro, special guest che riaccende brividi e scintille del vecchio T-Rex a caccia sotto la pioggia (se ne vorrebbe di più: sogniamo un tripudio di pure forze cine(ma)tiche in lotta tra loro come in un Godzilla vs Kong versione giurassica). Non più un mostruoso guazzabuglio fantasy come L’Indominus Rex o L’Indoraptor, ma un temibile e redivivo predatore preistorico, che segna il ritorno alla selvaggia dimensione primordiale e al richiamo ancestrale del thriller (fanta)scientifico delle origini, con le consuete implicazioni bioetiche sulla catastrofe ecologica e la “metafisica delle identità” di Maisie Lockwood legate in sceneggiatura a doppio filamento di DNA.
ANTICHI FOSSILI E NUOVA CARNE
C’era grande attesa per il rientro dei personaggi storici della saga originale, e qui le aspettative non sono andate (troppo) deluse. Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum in un attimo ricreano sullo schermo l’alchimia affiatata, l’istintiva empatia e lo smalto dei giorni migliori, restituendo allo spettatore tutto il rispetto e l’affetto malinconico che con ogni evidenza provano per i loro personaggi, e per i ruoli che più di ogni altri li hanno resi delle icone. Il team-up attoriale e narrativo tra vecchie glorie e nuovi innesti, pur con qualche forzatura stridente (il naturale humour di Malcolm si fa isterico e meccanico, con l’innato sexual charisma di Goldblum pure costretto a nascondere il petto nella camicia abbottonata), funziona a dovere, scopre coppie speculari (Grady – Grant e Dearing – Sattler) e porta a termine gli archi narrativi di entrambi i fronti. Con le new entry che si inchinano, immancabilmente sbalordite, davanti alla santa trinità Grant – Sattler – Malcolm, con la devozione riservata alle leggende viventi.
IL MONDO PERDUTO (E RITROVATO)
Lascia invece più perplessi il fatto che il grande tema fondante di quest’ultimo capitolo, la libera e complicata convivenza di uomini e dinosauri su scala mondiale (qualcuno potrebbe obiettare, con ironia spielberghiana, che la donna erediterà la Terra…), resta a conti fatti in sospeso e irrisolto, eventualmente rimandato a ulteriori futuri sviluppi (?). Con tutte le riflessioni sul destino di umanità e colossi preistorici che restano dunque al di qua del guado, sostanzialmente invariate rispetto alla situazione di partenza: le immagini del notiziario dell’incipit, con gli stegosauri che tagliano la strada alle automobili e l’allosauro che assedia i campeggiatori in roulotte, in fondo sono le stesse del finale, coi triceratopi che marciano tra gli elefanti sullo sfondo di un’alba in stile Re Leone e i parasaurolofi che si confondono tra i cavalli in corsa nel deserto. L’evoluzione delle diverse specie elette nello stesso branco che viaggiano verso un futuro incerto e ignoto, con il passo di creature maestose che sembrano però lontane dal lasciare sul terreno del cinema la gigantesca impronta iconica dell’inarrivabile modello spielberghiano, speriamo non definitivamente estinto.
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