Immaginate andare a vedere un film della durata di più di tre ore in cui tutto ciò che ci viene fatto vedere è la routine di una donna vedova negli anni ’70 la cui giornata comprende cucinare per lei e per il figlio adolescente, tenere la casa in ordine, fare la spesa, recarsi a ritirare la posta e niente di più. Noioso, non è vero? Perché è esattamente quel film che Sight & Sound ha deciso di inserire al primo posto in una classifica dei migliori film della storia del cinema (quindi badate, al di sopra di Quarto Potere!).
Già dal titolo Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles si può capire cosa ci verrà mostrato sullo schermo: la vita protagonista e il suo indirizzo sono infatti le informazioni principali che ci vengono date, lasciando nell’ignoto quasi tutto ciò che si trova al di fuori della casa in cui si svolge la maggior parte della “storia”. E le virgolette non sono casuali, perché quella che la regista Chantal Akerman ha deciso di mostrare lungo 200 (lunghissimi) minuti non è una “vera” storia, o meglio non quella che ci si aspetterebbe sedendosi sulla poltroncina del cinema.
UN RACCONTO FATTO PER ESSERE NOIOSO
Forse Jeanne Dielmann non è il film più indicato da guardare dopo cena, dato che potrebbe essere molto semplice addormentarsi in un lampo! Praticamente ciò che si prova lungo la visione è pura e semplice noia. La vita di Jeanne è noiosa: è noioso vedere lei cucinare meccanicamente le patate o preparare il polpettone; è noioso guardare lei mentre lava i piatti, mentre sistema il letto la mattina, mentre cena con una zuppa insieme al figlio chiaramente più interessato ai libri di scuola che a conversare con una madre sola e, appunto, noiosa. In oltre tre ore di durata ci vengono mostrati tre giorni nella vita della donna e man mano che si va avanti con la visione, tra un’occhiata all’orologio e l’altra, ci si sente quasi dei guardoni che dal buco della serratura osservano la ripetitiva routine di una persona, da quando si alza la mattina fino a quando va a coricarsi la sera, aspettandosi qualcosa di incredibile o un colpo di scena che però non arriva mai. La casa sembra essere l’unica amica di Jeanne, che non riesce ad avere un vero rapporto neanche con il figlio Sylvain: il ragazzo, infatti, si limita a fare qualche domanda alla madre in alcune scene, ma i dialoghi nel film sono davvero pochi. Jeanne trascorre la maggior parte delle sue giornate completamente sola, per cui non c’è necessità di avere dei veri dialoghi. Al di fuori del figlio, le uniche persone con cui ha qualche scambio di battute sono la vicina di casa e gli uomini a cui la nostra protagonista si concede per mettere da parte qualche soldo e tirare a campare.
Le inquadrature fisse e infinite sulla cucina in cui Jeanne pela le patate o prepara la farina per impanare delle fettine di carne spingono lo spettatore alla costante ricerca di qualcosa che non esiste; lo sguardo finisce per vagare dalla donna alle sue mani, al tavolo sullo sfondo dove ogni cosa ha il suo posto, il sapone dei piatti all’angolo del lavandino, la spazzola verde rigorosamente appesa al muro e così via. Ogni volta ci si interroga se ci sarà qualcosa fuori posto o qualche dettaglio in più, ma per oltre due ore e mezzo non succede praticamente niente di interessante.
Sappiamo tutti quanto è terribile annoiarsi al cinema fino ad addormentarsi sulla poltroncina o peggio fino a uscire dalla sala chiedendosi cosa diavolo sia saltato in mente a chi ha deciso di proiettare una roba simile. Eppure, per quanto sia insopportabile, la noia è tanto, tanto preziosa. Durante le tre ore e ventidue minuti del film abbiamo tutto il tempo del mondo per perderci tra la cucina, il salotto, la camera da letto di Jeanne, per osservare le sue azioni calcolate e sempre uguali come lo spegnere la luce e chiudere la porta ogni volta che esce da una stanza. Le inquadrature fisse e lunghe portano lo spettatore ad assaporare ogni movimento e ogni minimo dettaglio dei luoghi in cui la donna si sposta, mettendo di conseguenza in discussione la propria soglia dell’attenzione che negli ultimi tempi si sta abbassando notevolmente.
Durante la visione del film, Chantal Akerman vi chiederà di fermarvi ad osservare con calma la vita di qualcuno per riflettere un po’ anche sulla propria. E se vi annoierete è giusto, ogni tanto ne abbiamo bisogno tutti.
UNA VITA COSÌ COMUNE DA DIVENTARE INVISIBILE
Chantal Akerman non ha mai confermato che Jeanne Dielmann fosse di ispirazione femminista, eppure è impossibile non avere qualche pensiero al riguardo. Ciò che ci viene mostrato è la vita di una casalinga degli anni ’70, vedova e con un figlio da mantenere, costretta a prostituirsi per mettere da parte dei soldi. Jeanne non ha un lavoro e mai potrà averlo, perché come lei stessa spiega in una scena “non sa fare molto altro” se non cucinare, occuparsi degli altri e tenere in ordine la casa. È una donna come ce ne sono state tante (e continuano ad esserci): sposata in età molto giovane con un uomo che l’avrebbe protetta e mantenuta, ma che una volta morto non le ha lasciato nulla per poter acquisire un’indipendenza. Jeanne si guadagna da vivere con i soli mezzi che conosce in quanto donna completamente assorbita da un sistema patriarcale che le ha costruito intorno una gabbia. Jeanne è incapace di costruire dei rapporti reali, tanto che suo figlio sembra non voler avere niente a che fare con lei: di conseguenza la donna si ritrova a cercare questo legame mancante nel figlioletto della vicina a cui si offre di badare nel pomeriggio. La scena con il neonato è forse una delle più forti del film e ancora più di tutto il resto fa arrivare allo spettatore il senso di inadeguatezza e crisi esistenziale che la protagonista prova in ogni momento della sua vita. Jeanne prende in braccio il bambino, alla ricerca di un contatto o forse di una prova che le dimostri di essere ancora una buona madre, ma il bambino non fa altro che piangere disperatamente finché non viene rimesso nella sua culla. E così per minuti interi, un’inquadratura fissa su un sentimento di totale sconforto di Jeanne mentre capisce che tutto ciò a cui ha consacrato la sua vita (essere madre e prendersi cura degli altri) le si sta ritorcendo inevitabilmente contro.
AL DI LÀ DEL CINEMA STESSO
In una vita così monotona e ripetitiva non c’è spazio per il colpo di scena, ma Chantal Akerman trova comunque il modo per sorprenderci: è nell’ultima ora di film, infatti, che le cose iniziano piano piano a cambiare. Durante l’ultimo giorno che ci viene mostrato, la routine così perfetta e ossessiva vista finora comincia a incrinarsi. Jeanne brucia il caffè la mattina ed è costretta a fare colazione solo con un bicchiere di latte, poi si accorge di aver perso un bottone del maglione, infine fa cadere una forchetta che ha appena lavato. Questi avvenimenti apparentemente insignificanti (che tuttavia nell’ottica generale del film diventano svolte di trama assurde!) scavano nella mente della donna e, proprio negli ultimi minuti di film la portano ad un gesto che lo spettatore non si sarebbe mai aspettato: Jeanne ha un rapporto con un cliente e, dopo essersi rivestita, pugnala a morte l’uomo con delle forbici lasciandolo sul letto in un lago di sangue. In una scena di pochi minuti (se non secondi) veniamo “ripagati” di tutta la noia provata per la maggior parte del film, che si conclude proprio quando sta per succedere qualcosa di interessante: l’unico avvenimento rilevante e, se vogliamo, rivoluzionario nella vita di Jeanne ci viene mostrato alla fine di una narrazione che di rilevante non ha nulla. E forse è proprio questa la scelta innovativa di Chantal Akerman: mostrarci tre ore di immagini sempre uguali, senza una vera storia per poi darci una singola svolta di trama alla fine. Jeanne Dielman non ha niente di cinematografico, è qualcosa di talmente diverso da essere quasi incomprensibile. E in fondo va benissimo così.
Caspita! Dal suo articolo, la corazzata Potiemkin pare un film con Vin Diesel in confronto…. Sorbirsi ‘sto mattone all”uranio impoverito suona quasi come una di quelle prove d’iniziazione per entrare in una gang, in una tribù..o in un circolo d’intellettuali snob e spocchiosini…..Grazie per avermi messo in guardia, lo eviterò .