Nel 1987 i Pet Shop Boys, duo synth pop britannico, pubblicano il singolo It’s a sin, che condanna la morale cattolica basata sui concetti di peccato, vergogna e colpa. Attorno a questi temi ruota la storia raccontata dalla nuova serie televisiva firmata da Russel T. Davies (già noto, fra le altre cose, per un altro cult della serialità LGBT+ come Queer as folk), che proprio per questo motivo prende lo stesso titolo della canzone, e che è già andata in onda nel Regno Unito su Channel 4 e negli Stati Uniti su HBO Max, riscuotendo grande successo. La vicenda di It’s a sin inizia nel 1981 e segue lungo tutto il decennio la vita di un gruppo di ragazzi gay e queer che, fuggiti dalle loro famiglie di origini per trasferirsi a Londra e vivere apertamente la loro vita, si trovano a dover fronteggiare la minaccia dell’epidemia di AIDS, che sconvolgerà profondamente le loro esistenze.
In particolare il personaggio su cui la serie insiste di più è quello di Richard Tozer, interpretato da Olly Alexander (frontman della band Years & Years), giovane rampante e ambizioso che arriva nella capitale inglese per studiare legge. Sarà grazie all’incontro con Jill, la quale diventerà sua grande amica, che avrà il coraggio di seguire il suo vero sogno, ovvero la recitazione, andando ancor di più contro le aspettative della famiglia. Anche il personaggio di Jill è particolarmente interessante: unica ragazza del gruppo, con genitori molto aperti mentalmente, è la prima che si preoccupa della nuova malattia che si sta diffondendo, nonostante in quel frangente non ne sia personalmente toccata, mentre ancora gli amici fanno finta di niente, o peggio, si danno apertamente alla negazione del pericolo che stanno correndo. Se fosse davvero così grave – dice ad un certo punto Richard – “sarebbe su tutti i notiziari”. Attraverso gli occhi di Jill vediamo l’impotenza di fronte ad una malattia di cui non si sa ancora niente, e di cui probabilmente una società così conservatrice non vuole sapere niente, soprattutto visto che ad essere colpiti sono gruppi marginalizzati che alcuni, molti, vorrebbero solo non esistessero.
Al termine dei cinque episodi siamo capaci di tirare le fila e capire quello che la storia vuole comunicarci sotto la superficie: il vero problema, la vera malattia, è la vergogna. La maggior parte dei ragazzi che contraggono l’AIDS muore nel silenzio, nella vergogna, nella solitudine. “Vanno a casa”, come dice Carol, l’agente di Richard, riferendosi ai tanti attori gay che, in punto di morte, tornano nelle loro città di origine, in provincia, per sparire senza che nessuno sappia cosa gli è successo. I riferimenti a quanto sia tossico vivere costantemente sotto questa cappa oscurantista punteggiano la serie dal primo momento, ma esplodono verso la fine nel monologo in cui Jill incolpa la madre di Richard, Valerie, altro personaggio a suo modo straordinario, per la morte del figlio e di tutti quei ragazzi che il figlio ha contagiato, perché cresciuto in una casa infestata dalla vergogna. Vergogna che lo ha portato a credere, come tanti altri, di meritarsi la malattia, di meritarsi quella fine. E non a caso è mostrata la morte solo di coloro che in qualche modo si sono riscattati da questa spirale della vergogna, gli altri semplicemente scompaiono. Della loro morte vediamo solo i segni.
Per quanto moralmente negativo, il personaggio di Valerie Tozer, madre di Richard, è forse uno dei più interessanti. gran parte del merito va all’interpretazione magistrale di Keeley Howes, che dopo quattro episodi da personaggio secondario, nell’ultimo esplode con una scena tour-de-force che dà al personaggio uno spessore, una complessità e una serie di contrasti, che lo rendono quantomeno affascinante, anche se negativo. Ma in generale è interessante vedere come siano le madri a tenere le fila di questo rapporto complicato con i figli, più o meno amati, più o meno accettati per quello che sono, a volte umane e a volte fredde come il ghiaccio, ma comunque presenti. Al contrario dei padri che, quando non completamente assenti, sono deliranti o dei fantasmi.
Nonostante la morte e la malattia siano così presenti, o anzi, probabilmente proprio per questo motivo, la serie vibra di vita e di energia, di emozioni, di umorismo e irriverenza, di momenti di profonda umanità. Come tutte le buone storie, ti fa venire voglia di sognare e di vivere.
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