In cinque diversi episodi, altrettanti registi europei raccontano il primo lockdown concentrandosi su diversi aspetti. Il documentario, uscito lunedì 4 ottobre al cinema, vede uniti i lavori di Michele Placido, Julia von Heinz, Olivier Guerpillon, Jaco Van Dormael e Michael Wintebottom.

La morte addosso – Michele Placido

In questo primo episodio Placido sceglie di mostrare il lato più evidente e comunemente sentito di quella che è stata la quarantena di marzo 2020: l’impressione della morte che aleggia nell’aria, la solitudine, la necessità di sopperire alla mancanza della vita di tutti i giorni costruendo un legame forte con piccole abitudini come passeggiate nella natura o la ricerca di un rifugio nei monumenti e nell’arte. Il regista evidenzia l’importanza della capacità di adattarsi e di arrivare ad amare quegli aspetti della vita che non si possono cambiare per stare bene. Un tentativo che, nonostante partisse da buoni presupposti, non riesce a svilupparsi in maniera originale. Non ci si discosta troppo dalle solite immagini viste più volte nel corso dell’ultimo anno e mezzo quando si è tentato di descrivere questo periodo drammatico: il materiale di repertorio registrato da un cellulare che mostra le camminate solitarie di Placido, la breve intervista a Bocelli sull’amore delle proprie abitudini, scene di ospedali in crisi, del Papa e di Mattarella non comunicano niente più di quel senso di pesantezza, tedio, sofferenza e talvolta noia che abbiamo tutti già presente e di cui siamo stanchi

Due padri – Julia Von Heinz

Segue il racconto da parte della regista tedesca Julia Von Heinz della  peculiare maniera in cui lei ha trascorso la quarantena. In seguito alla morte del padre, il giorno prima del lockdown, Julia si era recata a casa del defunto per occuparsi di mobili e altri oggetti da spostare o gettare. Qui, aprendo il computer, rimane sconvolta da qualcosa che non avrebbe mai sospettato: l’omosessualità del padre. Il suo periodo di quarantena quindi è stato un viaggio verso la conoscenza di questo aspetto del suo genitore, tramite messaggi ad altri membri della comunità gay di cui quest’ultimo faceva parte, e confronti con il regista Rosa von Praunheim. L’obiettivo di Julia è quello di raccontare schiettamente tutta la verità, per cancellare i sentimenti di vergogna e disagio che pensava suo padre potesse aver provato. Intenzioni nobili sicuramente che forse però sfociano un po’ nell’indiscrezione. Dai suoi racconti si percepisce un uomo, suo padre, molto timido e riservato, ma non necessariamente schiavo di un timore e un imbarazzo di sé tale da rendere necessario combattere in questo modo. Presentando del materiale pornografico gay che aveva per protagonisti due ragazzi giovani la Von Heinz voleva tentare un impatto visivo forte e significativo ma non riesce spesso a raggiungere quel grado di delicatezza tale da raccontare con tatto un tema così sensibile. Un racconto comunque meno banale di quello di Placido.

Liberty, equality, immunity – Olivier Guerpillon

Il terzo episodio costituisce il gioiello del documentario: Guerpillion non ha niente a che fare con le atmosfere pesanti evocate dai suoi colleghi. Per narrare una vicenda drammatica come la prima ondata di coronavirus appare quasi scontato adottare toni gravosi e angoscianti. Il regista francese si dimostra quindi originale sia nelle tematiche scelte che nel modo di raccontarle: con ironia e leggerezza descrive come la Svezia (paese in cui si era trasferito da tempo) aveva affrontato il mese di marzo 2020. Con frammenti di film di Bergman ed estratti di diversi contenuti mediatici offre simpatici spunti di riflessione non solo su come ci si sarebbe dovuti comportare e su quanto è invece accaduto (ricordiamo che la Svezia è stato il paese europeo con le norme meno severe per il contenimento del virus), ma anche sul popolo svedese e i suoi comportamenti abitudinari. Un punto di vista diverso e interessante, di gran lunga il migliore dei cinque.

Mourning in the time of Coronavirus – Jaco Van Dormae

Il regista belga sceglie di condividere il dramma della morte del padre di sua moglie, concentrandosi su una delle situazioni più tristi della quarantena: gli anziani nelle case di cura. Michèle Anne non aveva potuto vedere suo padre nei suoi ultimi giorni di vita perché le misure di sicurezza avevano imposto la chiusura delle case di riposo, aumentando di molto il senso di solitudine e di abbandono già di per sé spesso presente in questi luoghi. Giocando con i colori Van Dormae predilige il bianco e nero e inquadrature statiche con una musica struggente di sottofondo. Disorganizzazione e panico vengono messi in evidenza con materiali di repertorio di interviste a politici ed esperti. Una vicenda toccante che non poteva essere descritta diversamente ma ancora una volta rimane ancorata a parametri ben definiti (senso di angoscia e pesantezza, musica melodrammatica, scene di persone che comunicano tramite videochiamate, interviste televisive) da cui solo Guerpillion riesce ad affrancarsi.

Isolation – Michael Winterbottom

Un altro interessante punto di vista è quello del regista inglese Michael Winterbottom, che racconta la storia di Eglantina e suo figlio Alvin, due richiedenti d’asilo in Inghilterra. Neanche in questo caso ci si discosta dalle atmosfere gravose; tuttavia, a livello di contenuti l’episodio non risulta scialbo o insulso. 

Il limbo in cui i richiedenti d’asilo si trovano può durare a volte anche anni, senza possibilità di lavorare o studiare. Questo dramma è stato ovviamente intensificato dalla quarantena. Eglantina e suo figlio hanno vissuto segregati in una stanza con cucina condivisa, tenendosi in contatto con parenti che non vedevano da molti anni solo tramite videochiamate. Angosciante ma con una storia che merita di essere ascoltata.

A più di un anno distanza dai fatti raccontati è importante ricordare quanto avvenuto e non smettere di provare empatia, tuttavia Isolation è un lavoro che, nonostante gli ottimi presupposti, non riesce a svilupparsi come potrebbe. Un vero peccato.

Questo articolo è stato scritto da:

Gaia Fanelli, Redattrice