Io capitano segna il primo incontro tra Matteo Garrone e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, concorrendo per il Leone d’oro a questa 80esima edizione, dove il film viene presentato in Concorso.
La sceneggiatura scritta dal regista assieme a Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso (suo storico collaboratore) e Andrea Tagliaferri, mettendo insieme frammenti di molteplici racconti di migranti narra del viaggio estremo di due ragazzi senegalesi di appena sedici anni, Moussa e Seydou, che per raggiungere l’Europa lasciano Dakar e attraversano i territori mortali dell’Africa occidentale (Mali, Niger, Deserto del Sahara e Libia).
L’odissea migratoria di Garrone
A pensarci bene Io capitano è un cerchio che si chiude dopo 27 anni dall’uscita di Terra di mezzo, esordio alla regia di Garrone che riuniva lungo le strade romane tre storie di migranti. Ora però la posta in gioco è molto più alta: dopo tanti altri film come Terraferma, Mediterranea o Tolo Tolo che hanno affrontato la crisi migratoria attraverso gli occhi di noi europei, ora abbiamo il controcampo (come lo ha definito lo stesso regista), il punto di vista interno, di coloro che quegli orrori li hanno visti, vissuti, sofferti e sopportati. Il film infatti trae ispirazione dai racconti di migranti che il regista ha intrecciato e lasciato recitare a due attori senegalesi non professionisti, mai usciti dal territorio senegalese, e di cui mantiene anche i nomi, Seydou Sarr (Seydou) e Moustapha Fall (Moussa); per imprimere ancora più realismo e spontaneità alla narrazione Garrone ha scelto di non far leggere ai due nemmeno la sceneggiatura, che invece hanno imparato oralmente giorno per giorno attraverso la mediazione di un interprete. Nel film i due giovani hanno cellulari, televisione, internet, social network, vivono in una Dakar piena di vita, umanissima e il regista è molto bravo a ribaltare la prospettiva facendoli rimanere di sasso quando scoprono che in Europa c’è addirittura gente che dorme per strada; una narrazione su cui si focalizzano poco i nostri media che preferiscono spesso fare il loro gioco, sia da una parte che dall’altra. Seydou e Moussa in fin dei conti conducono una vita normale, ordinaria, però se i coetanei francesi possono arrivare sin lì dalla Francia, perché non poter fare lo stesso uscendo dal Senegal e raggiungendo l’Occidente?
Le fatiche mortali del Deserto del Sahara
Per loro l’Europa è una scuola migliore, maggiori diritti, sognano che qualcuno chiederà il loro autografo come fossero all’interno di un European dream. Un sogno. Sull’onda dell’entusiasmo sognano un viaggio senza ostacoli, sereno, lineare, chiedono addirittura il via libera di un marabout, la figura spirituale fondamentale dell’islam saheliano che è spesso un reduce della tratta migratoria e che dispensa loro consigli. Una volta ottenuto l’ok è il momento di comunicare la scelta anche alla madre, che però considera folle la scelta dei ragazzi e gli ricorda che anche in Senegal c’è bisogno d’aiuto, in un altro momento di sovvertimento della prospettiva comune.
Avere questo sogno è giusto? E’ sbagliato? Garrone sceglie intelligentemente di non annacquare il film di retorica e di politica – nella sua accezione più dura e partitica – ma di mostrare un dato di fatto, una realtà che esiste e che va affrontata; non solo, c’è un’altra scelta lodevole: il film ci trasporta in un’epopea che intreccia il viaggio omerico a quello di Collodi, con i protagonisti che disobbedendo ai genitori abbandonano il Paese natale e incontrando diversi gatti e volpi si ritrovano nel Paese dei balocchi, che per l’occasione prende le sembianze dei campi di detenzione libici, del caldo mortale del deserto e delle acque agitate del Mediterraneo; questo taglio epico e cinematografico consente a Io capitano di evitare la trappola del documentarismo osservativo in cui incorrono tanti film (basti vedere pochi anni fa il caso di Pleasure), perché se si vuole raccontare il vero con la finzione – senza ricorrere al documentario – e se si chiede quindi allo spettatore di firmare il patto narrativo con conseguente accettazione di sospensione dell’incredulità, è giusto restare coerenti e sinceri con il pubblico valorizzando il trasporto emotivo e i toni poderosi che un simile poema epico assume davanti ai nostri occhi, in poche parole: il Cinema. E Io capitano straripa di cinema in ogni inquadratura (cosa per cui invece Agnieszka Holland decide di non optare ne Il Confine Verde, altro film di migrazioni in Concorso a Venezia ma molto più scolastico) grazie ai campi lunghissimi di Garrone e alla sublime fotografia di Paolo Carnera. Ovviamente, stick to the facts, come direbbero in America: è importante mantenere salda la verità dei racconti sentiti dal regista e perciò l’impianto pienamente cinematografico è inserito all’interno di una cornice dettagliatamente realistica, come i corpi lasciati a marcire nel deserto, le atrocità dei campi libici, le difficoltà della traversata mediterranea o anche la lingua wolof parlata dai protagonisti – quella dell’omonima popolazione che costituisce circa il 40% di quella senegalese – e che sarà fortunatamente mantenuta nelle sale italiane su scelta coraggiosa della 01 Distribution, che distribuirà il film sottotitolato.
Una visione di Seydou
Un tragico viaggio di formazione
Io capitano è un road movie attraverso l’Africa occidentale che diventa anche un tragico coming of age della cui tragicità ci accorgiamo solo noi. Perché è in questo che Io capitano vince la scommessa, nel raccontare una storia accessibile a chiunque che è al contempo archetipo e futuro da affrontare, tanto per noi che guardiamo il film quanto per la popolazione africana che invece prima di partire, pur sentendo i racconti e vedendo le immagini in televisione, non vuole credere al dramma in atto nella tratta migratoria. Sembra che l’european dream sia dietro l’angolo: nel viaggio di formazione troveranno spazio anche i sogni, che donano al film quel carattere fantastico che è leitmotiv garroniano (non dimentichiamo Il racconto dei racconti o Pinocchio) ma che avremmo voluto veder sfruttato di più, accennando al fantasy in appena due scene e non portando avanti mai questo aspetto.
Il film si chiude con una nota di speranza nel momento che noi occidentali avremmo sentito più nostro, una volta avvistata l’Italia: una scelta radicale che conferma la volontà di mantenere il punto di vista altro, a noi estraneo, nuovo, ma che ci lascia anche con il desiderio di saperne di più; una sensazione che abbiamo anche prima del finale, dove talvolta sembra che siano state tagliate delle parti e che dei risvolti drammatici potessero essere approfonditi, come quello della madre protagonista addirittura di uno dei due momenti onirici del film e mai più ripreso, oppure anche degli stessi protagonisti di cui sappiamo poco a inizio film e poco sapremo allo scorrere dei titoli di coda.
È vero, c’è l’impressione che manchi qualcosa all’epica umanista di Io capitano, che a volte il pericoloso road movie sia stato mutilato, privato di alcune scene e del quid che lo avrebbe reso un grande film. Potremmo accusare il film di tante cose, che avrebbe dovuto imprimere ancora più epica o al contrario trasudare ancora più umanesimo, ma nella possibilità di attacco artistico resta il grande rispetto verso un progetto affascinante, da ammirare e da supportare, perché oltre alla novità di sguardo su una tragedia che riguarda tutti indistintamente è anche un’opera che fonde sguardo umanista e taglio cinematografico senza mai mettere all’angolo lo spettatore e senza alcun tono accusatorio, ma solo con il grande piacere della narrazione.
Io capitano uscirà nei cinema italiani il 7 settembre 2023.
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