All’interno del cinema horror contemporaneo un nome che spicca è senza dubbio quello di James Wan, autore capace di realizzare singole pellicole di successo come Dead Silence (2007) o Malignant (2021) ma anche saghe che ancora oggi continuano ciclicamente a tornare sullo schermo, come Saw – con un decimo capitolo in arrivo ad ottobre – o l’universo di The Conjuring – con The Nun 2 in uscita a settembre. La saga di Insidious invece, partita nel 2010, è rimasta più in sordina rispetto alle due “sorelle maggiori” pur dimostrandosi capace di conquistare una grossa fetta di pubblico, tanto da portare a questo quinto capitolo.
L’aldilà, ma meno spaventoso
Dopo un terzo e quarto capitolo incentrati sulla figura della medium Elise e che fungevano da prequel del primo film, la storia riprende direttamente da dove ci si era lasciati alla fine del Capitolo 2 con Josh ed i figli intenti a sottoporsi ad ipnosi per dimenticare i fatti dell’ultimo anno sopprimendo così anche i loro poteri e la possibilità di entrare in contatto con altri fantasmi. Con un salto di nove anni (il secondo capitolo era del 2013) si arriva così in un presente in cui la famiglia Lambert, ora divisa dalla separazione di Josh e Renai, è riunita per celebrare il funerale della madre di Josh Lorraine e l’ultima occasione di raccoglimento prima della partenza per il college del figlio maggiore Dalton. Il film si apre quindi con i due differenti segmenti narrativi di Josh e Dalton, accomunati dall’unico desiderio di capire cos’è successo nel loro passato e scoprire quale sia il significato della porta rossa che continuano a vedere in sogno.
La sceneggiatura è qui, come in tutti i precedenti capitoli, scritta sempre da Leigh Whannell – creatore storico della serie e regista del terzo capitolo – ma aiutato per l’occasione da Scott Teems. Ben consci di come non fosse mai stata, nemmeno nei primi capitoli, la componente di spicco, qui ci si ritrova davanti ad una sceneggiatura a due facce: da un lato cerca di presentare una storia appetibile anche per chi non abbia visto i capitoli precedenti, sfruttando per più di metà pellicola lo stilema dell’amnesia e della mancanza di ricordi dei protagonisti, ma al tempo stesso quando si entra nel vivo e si cominciano a tirare in ballo elementi portanti della saga – l’Altrove con il suo funzionamento, lo sfasamento temporale, il ruolo dei fantasmi e come essi interagiscono con il mondo reale – la pellicola è come se desse per scontato che tutti gli spettatori abbiano visto i primi film e conoscano questi dettagli. Si crea così una situazione in cui gli spettatori “anziani” sanno troppo e non riescono ad essere coinvolti e gli spettatori “vergini” finiscono ben presto per essere soverchiati di elementi senza spiegazioni che distruggono l’immedesimazione.
Mancanza dell’autore
Per quanto Leigh Whannell sia il nome che si lega in maniera attiva a più capitoli, è indubbio che sia stato James Wan a far raggiungere il successo ai primi capitoli. Già con il terzo e il quarto, infatti, questo concetto sembrava essersi palesato attraverso due pellicole dimenticabili e che poco o nulla aggiungevano alla saga ed al panorama horror in generale. La decisione di affidare questo quinto capitolo a Patrick Wilson, al suo esordio come regista, purtroppo genera un effetto fortemente simile: l’impegno c’è e si vede, tanto da rendere evidente in alcune scene quanto Wilson abbia inevitabilmente imparato qualche trucco del mestiere da Wan negli anni – soprattutto grazie al numero di set condivisi assieme – ma, anche e soprattutto grazie ad una sceneggiatura che relega al vero villain della pellicola un minutaggio davvero risicato e che riempie i momenti di tensione di spettri “benevoli”, la regia delle scene horror finisce per manifestarsi attraverso sequenze in completo silenzio seguite da jumpscare fortemente telefonati che, a differenza dei primi capitoli in cui i mostri agivano anche dopo lo spavento inseguendo, schernendo o attaccando i protagonisti, si interrompono subito dopo il classico urletto o stretta sul polso o sulla caviglia. Non un pessimo esordio, ma si poteva fare di più.
Convincono invece il trucco e la fotografia curata da Toby Oliver, capaci di mettere in scena ambientazioni spesso inquietanti e mostri dal design “spaventosamente” riuscito, lasciandosi alle spalle quel look cheap a tratti quasi stucchevole che caratterizzava i primi capitoli. Forse per cercare di rimanere il più possibile dietro la macchina da presa, il Josh di Patrick Wilson, comunque protagonista, lascia molto più spazio al Dalton di Ty Simpkins che riesce però solo a tratti a reggere tutto il peso posizionato sulle sue spalle. Apprezzabile il ritorno di Rose Byrne e Andrew Astor nei panni di Renai e Foster Lambert anche se per ruoli fortemente ridimensionati rispetto ai primi capitoli, come lo sono anche i piccoli cameo da parte di Leigh Whannell e Angus Sampson come Specs e Tucker, del Charlie di Steve Coulter e della famosa e iconica per la saga Elise di Lin Shaye.
Conclusioni
Il ritorno al cinema della saga di Insidious non è certo dei migliori con questo quinto capitolo: la sceneggiatura cerca di conquistare nuovi fan ma di richiamare anche quelli storici, creando così sequenze confuse per i primi e prive di mordente per i secondi; la regia si dimostra piuttosto scolastica – salvo qualche movimento di macchina degno di nota – capace di creare tensione ma sfociando sempre in jumpscare troppo telefonati anche per gli spettatori meno avvezzi al genere; la componente attoriale si sorregge quasi totalmente sulle spalle del giovane Ty Simpkins, non sempre all’altezza della situazione, con un Patrick Wilson molto più incisivo dietro la macchina da presa e una Rose Byrne relegata a un ruolo secondario troppo piccolo per permetterle di spiccare adeguatamente. Si salvano giusto la fotografia ed il trucco, capaci tutto sommato di costruire per quanto possibile una buona atmosfera.
Con grande dispiacere bisogna a questo punto ammettere che Insidious non sarà mai capace di entrare nell’Olimpo delle saghe horror, per quanto questo possa fare male.

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