Indiana Jones non è cambiato, il mondo attorno a lui sì. Da questo assunto partiva – ormai quindici anni fa – Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Nel quarto capitolo della storica saga creata con George Lucas, Steven Spielberg toglieva l’archeologo interpretato da Harrison Ford dalla sua epoca per gettarlo in piena guerra fredda e chiudere, in maniera più o meno definitiva, la storia del professor Henry Jones Jr. Il quale, nonostante le rughe e i capelli bianchi, restava ancora l’eroe immarcescibile e divertito di un tempo.
Certi eroi, però, non sono destinati a restare in pensione troppo a lungo: non in un contesto pop che ha fatto dell’effetto nostalgia e del riciclo di vecchi miti la propria missione. Arriviamo così al canto del cigno definitivo dell’archeologo con Indiana Jones e il quadrante del destino, presentato allo scorso Festival di Cannes, in cui Steven Spielberg lascia il timone della creatura sua e di Lucas in mano a James Mangold, forte del discreto successo riscosso da un’altra conclusione, quella di Logan.
Un’icona pop al tramonto
Troviamo Indiana Jones nel 1969, poche settimane dopo la missione Apollo 11 che ha definitivamente stampato nell’immaginario dell’America un nuovo tipo di eroe e messo quelli vecchi in soffitta. L’ombra dell’avventuriero di un tempo, il professor Jones ha abbandonato il fedora da anni e insegna archeologia a una generazione sempre più svogliata e distratta, fino a quando il richiamo all’avventura non si presenta sotto le sembianze della figlioccia Helena (Phoebe Waller-Bridge).
Indiana Jones non è più quello di un tempo: James Mangold e Harrison Ford non fanno finta che l’eroe con frusta e cappello sia ancora un ragazzo e sottolineano abbondantemente gli acciacchi degli anni e dei chilometri vissuti sulla propria pelle. Indiana Jones è almeno all’inizio in balia degli eventi, un personaggio secondario della sua stessa storia e la parte del leone la fa l’intraprendente e spregiudicata tomb raider Helena, in cerca di antichità per riempire le proprie tasche. È lei che mette in moto gli eventi ed è lei che, all’inizio, il villain Voller (Mads Mikkelsen) insegue, alla ricerca dell’eponimo quadrante del destino, un altro manufatto in grado di conferire poteri straordinari. Questo fino a quando Indy non si confronta con i fantasmi del suo stesso passato e non si decide a riprendere in mano la propria vita.
L’ennesima ultima cavalcata
Non si può dire che James Mangold e il team di sceneggiatori non abbiano fatto i compiti a casa. Mettono in fila le caratteristiche iconiche del personaggio – la paura dei serpenti, gli insetti schifosi, il giovanissimo sidekick abile pilota, la mappa con il percorso tracciato in rosso –, spostano le loro pedine da una location esotica all’altra alla ricerca del macguffin di turno, alternano azione, commedia e nostalgia, citando quanto basta i precedenti film tra dialoghi, inquadrature e prestiti dalle storiche colonne sonore. Mangold e compagni, quindi, riescono a rivestire di commozione l’addio a questo personaggio leggendario, grazie anche a un Harrison Ford appassionato più che mai. L’idea di un eroe al tramonto, in cerca del proprio posto nella Storia è un modo più che legittimo per mettere la parola fine a un’avventura durata quarantadue anni. Non manca neppure un po’ di genuino divertimento. La sequenza iniziale con un giovane Indy – la qualità del ringiovanimento digitale varia da inquadratura a inquadratura – dà una partenza piena di brio a un film altrimenti crepuscolare e qua è là si trovano gli echi delle buone intenzioni che pure puntellano questo lungo epilogo. Purtroppo, tolti questo e la conclusione – squisitamente assurda, farà discutere tanto quanto quella del precedente – resta poco altro degno di nota.
La ruota del destino è l’ennesimo caso di un franchise che, quarant’anni dopo il suo inizio, scambia la devozione per genuina passione e fraintende ciò che rende davvero unico un film come I predatori dell’arca perduta. Replicare gli stilemi e i tic amati dal pubblico non basta, se si trascura l’anima postmoderna di una saga imbevuta fino all’osso di nostalgia cinefila e influenze d’infanzia. Mangold è un intelligente regista, ma privo della sensibilità tutta di Spielberg nei confronti della propria materia narrativa. Non si può attribuire tutta la colpa a lui, quanto a una più generale propensione delle produzioni contemporanee di giocare sul sicuro, di offrire un intrattenimento inoffensivo e per tutti. Il risultato è un epilogo di moderato divertimento ma asettico, che della serie ignora le tendenze all’horror, annacqua la commedia – a cui danno un po’ di vita giusto le interazioni tra Ford e Waller-Bridge – e ammazza la tensione in prolungate sequenze d’inseguimento prive di rischio e di ritmo. In poche parole, di Indiana Jones il quadrante del destino recupera molto della forma e poco della sostanza. Un’ulteriore dimostrazione che certi reperti sono inseparabili dalla loro epoca di provenienza e che sarebbe meglio lasciare al loro posto nella Storia del cinema.

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