All’interno del panorama horror, Blumhouse Productions è uno di quei nomi che gli appassionati hanno imparato a conoscere molto bene. Fondata nel 2000 da Jason Blum, ha tra le sue produzioni anche pellicole di generi diversi – ne sono esempi anche pellicole importanti come Whiplash (Damien Chazelle, 2014), BlacKkKlansman (Spike Lee, 2018) o Upgrade (Leigh Whannell, 2018) – ma che in particolare all’interno del cinema horror ha visto numerosi film capaci di entrare nell’immaginario collettivo, dividendo l’opera in due (immaginari) filoni: la fiducia verso nuovi nomi, di cui ne sono esempi Oren Peli con il suo Paranormal Activity, Patrick Bryce con Creep o Bryce McGuire con il recentissimo Night Swim, a cui fanno da contraltare produzioni associate invece a nomi già importanti, come James Wan con i suoi Insidious, Sinister e The Black Phone di Scott Derrickson, Le streghe di Salem di Rob Zombie ma ancora Hush di Mike Flanagan o Split e Glass di M. Night Shyamalan, e pellicole invece che presentano un alto tasso di (possibile) iconicità. Di quest’ultima categoria fanno parte anche alcune pellicole citate prima, divenute con il tempo vere o proprie saghe iconiche, i vari tentativi di rilancio di saghe o pellicole del passato, come la nuova trilogia di Halloween o L’esorcista: Il credente affidati a David Gordon Green, L’uomo invisibile di Leigh Whannell o The Craft: Legacy di Zoe Lister-Jones, e pellicole come The Purge, Ouija, Obbligo o verità, Unfriended, Auguri per la tua morte, Black Phone, M3gan o Five Nights At Freddy’s contenenti personaggi o elementi chiave capaci di risultare immediatamente unici ma soprattutto vendibili sia come gadget (spesso forte fonte di guadagno per le case di produzione) che come ipotetica facciata per altre pellicole (e conseguenti altri guadagni).

Non sempre quest’ultima tecnica funziona ed è noto a tutti come delle pellicole sopracitate una buona parte sia ormai finita di già nel dimenticatoio. La speranza è però l’ultima a morire e con essa i tentativi di creare nuove icone da parte della Blumhouse che, non a caso, proprio in questi giorni si presenta in sala con Imaginary che fin da subito è stato presentato in abbinamento con un’immagine ben precisa: un orsacchiotto – un teddy bear volendo fare gli anglofoni – dall’aria innocente che nasconde un terribile segreto.

Un inquietante amico immaginario

Jessica (DeWanda Wise), una pittrice e scrittrice di libri per bambini tormentata da ricorrenti incubi su un personaggio dei suoi libri, si trasferisce nella sua vecchia casa d’infanzia assieme al marito musicista Max (Tom Payne) ed alle figliastre Taylor (Taegan Burns), adolescente con la quale fatica a creare un legame, ed Alice (Pyper Braun), la minore delle due sorelle che già sembra aver costruito un bel rapporto con la matrigna. Qui proprio la piccola Alice trova nello scantinato l’orsacchiotto Chauncey (da noi tradotto inspiegabilmente in Teddy) con il quale sembra formare un forte legame che porta presto i loro giochi a passare da innocui a sempre più pericolosi ed inquietanti, manifestando – ed è quasi superfluo dirlo – come non si tratti di un semplice orsacchiotto di peluche.

L’idea di un “amico immaginario in salsa horror” si presenta di fatto come piuttosto interessante, soprattutto facendo capo ad un personaggio capace di cambiare completamente il proprio aspetto e dai poteri quasi illimitati, portando così ad una grande varietà di sequenze completamente diverse tra loro. Fin da subito vediamo come in realtà la pellicola di Jeff Wadlow – già regista di Kick-Ass 2 e Obbligo o verità, ma anche della piccola perla Cry_Wolf (da noi arrivato come Nickname: Enigmista) – punti soprattutto su una struttura classica: ambientazioni molto buie, forse anche troppo, in cui la presenza del mostro si fa gradualmente sempre più palese fino al jumpscare con conseguente fuga-inseguimento, ma che tutto sommato riesce a generare quel minimo di tensione prima e di terrore dopo grazie ad un buon design di Simon il ragno ma soprattutto di Chauncey, mostrati inizialmente con un aspetto fanciullesco e per bambini per poi trasformarsi in veri e propri mostri.

Iconicità parziale

Proprio su queste due figure si costruiscono i momenti migliori del film, riuscendo a realizzare un’iconicità orrorifica sia per quanto riguarda il ragno, creatura già inquietante di per sé – e quindi forse meno d’impatto – che sull’orsacchiotto. Su quest’ultimo in particolare viene svolto il lavoro migliore, sfruttando una presenza che, sorreggendosi non su particolari modifiche del design ma sulla sua semplice presenza coadiuvata dalle musiche di Bear McCreary e da buoni giochi di luci ed ombre, porta un elemento comune di molte case ad essere guardato a visione conclusa con (almeno) un minimo di sospetto.

Difficile però parlare invece di iconicità per il resto del film, complice soprattutto una storia che sembra voler porre l’orrore spesso in secondo piano a favore di momenti più prettamente drammatici tra momenti teen, numerose nozioni di psicologia e di superamento dei traumi passati che, se da un lato arricchiscono comunque la pellicola di tematiche interessanti, finiscono inevitabilmente per smorzare la tensione in più di un momento. Apprezzabile rimane comunque il twist presentato intorno alla metà del film, capace di accendere qualche lampadina nella testa dello spettatore riflettendo su quanto visto in precedenza – non siamo assolutamente ai livelli di un Hereditary per complessità, ma l’effetto è comunque particolarmente godibile – e l’idea di inserire un concetto di follia quasi lovecraftiano (se pur con le dovute modifiche), meno invece la volontà di infarcire la narrazione di elementi “di troppo” che finiscono per renderla non solo meno chiara ma anche meno credibile, oltre alla scomparsa quasi inspiegabile di alcuni personaggi (come il marito Max ed il possibile interesse amoroso di Taylor) quasi da una scena all’altra.

Sul lato tecnico Wadlow svolge un lavoro discreto che porta a casa la sufficienza piena ma da cui ci si poteva aspettare anche qualcosa in più, soprattutto considerando alcuni movimenti di macchina interessanti che dimostrano le – poco sfruttate – capacità del regista. Per quanto riguarda il cast, DeWanda Wise regge quasi completamente la pellicola sulle sue spalle assieme alla piccola Pyper Braun, ottima e particolarmente inquietante la presenza scenica – seppur breve – di Alix Angelis mentre dispiace per una Betty Buckley mal sfruttata, qui incastrata in un personaggio eccessivamente sopra le righe che finisce per diventare presto odioso per i motivi sbagliati.

Conclusioni

Con Imaginary la Blumhouse pone senza dubbio davanti a tutto l’obiettivo di creare una nuova possibile icona del cinema horror trasformando il carino e coccoloso teddy bear che tutti abbiamo in casa in un involucro per incubi. Poco chiara appare però la direzione intrapresa da Jeff Wadlow divisa tra un’anima fortemente riflessiva e più drammatica ed una più horror che finiscono inevitabilmente per scontrarsi rendendo la prima poco profonda ed impattante e la seconda veicolata necessariamente attraverso sequenze abbastanza anonime. 

A poco basta quindi qualche guizzo di regia o di sceneggiatura ad elevare una pellicola che sa, tutto sommato, abbastanza di già visto. Soltanto il tempo saprà quindi dirci se l’orsacchiotto Chauncey ed il ragno Simon saranno capaci di imprimersi nell’immaginario comune oppure spariranno nel passato proprio come quell’amico immaginario che abbiamo ormai da tempo dimenticato.



Mattia Bianconi
Mattia Bianconi,
Redattore.