Alma (Maren Eggert) è un’archeologa quarantenne che vive sola e lavora come ricercatrice al Pergamonmuseum di Berlino, dove studia le antiche forme di scrittura della civiltà persiana. Con la promessa di vedersi destinati dal suo capo alcuni fondi per una spedizione, unica single tra i dipendenti, è invitata a prender parte a un curioso esperimento sociale: dovrà trascorrere tre settimane in compagnia di un (fin troppo) premuroso e attraente robot umanoide installato in casa propria, Tom (Dan Stevens, il Matthew Crawley di Downton Abbey), messo a punto con sofisticati algoritmi per essere il partner perfetto e soddisfare ogni esigenza affettiva della donna, la quale, al termine del periodo di prova, dovrà stilare un bilancio di valutazione del consorte. La forzata convivenza tra Alma e Tom produrrà equilibri imprevisti e insospettabili affinità tra i due.
Centrato più sulle dinamiche di corpi estranei e sconosciuti che si avvicinano, si studiano e negoziano spazi, e su desideri ed esigenze nel nido domestico, piuttosto che sulle classiche leggi della robotica al cinema, I’m Your Man (Ich bin dein Mensch) della tedesca Maria Schrader (regista della serie Unorthodox) accantona presto la premessa fantascientifica e le implicazioni tecnologiche sull’artificiale, senza mai caricare l’impianto di futuribili suggestioni visive e apocalittiche. Ci troviamo, senza troppi scompensi immaginativi, nel mezzo dell’intima e prosaica attualità del quotidiano. Nel taciturno, nevrotico e frettoloso vivere contemporaneo. Fatto di alienazioni abilmente mascherate nella routine lavorativa, esistenze segnate e solitarie, traumi non esorcizzati, sentimenti repressi e trattenuti nella comfort zone, dietro le porte degli appartamenti (singoli) chiuse in faccia al pressante e competitivo giudizio degli altri.
La riflessione sul contatto, le interazioni e le influenze tra umano e artificiale, lungi da investire robuste speculazioni filosofiche a cui molta sci-fi iconica ci ha abituato, riguarda qui la comune e più ristretta dimensione delle sfuggenti e precarie relazioni sentimentali. Diventate così complicate e inaccessibili da rendere necessario un blind date a tavola con un adone sintetico come Tom, all’interno di un’elegante e affollata sala da ballo in cui Alma si trova circondata da una miriade di coppie di ologrammi, che simulano complicità e mimano tentativi di seduzione: il set artefatto per il suo appuntamento, il fondale senza materia di una modernità sussiegosa e anaffettiva che al tocco si dissolve, e che senza la stampella del simulacro non sembra più capace di vero slancio poetico, del gesto impulsivo come dono gratuito, del gusto del gioco e dell’effusione amorosa oltre gli affettati protocolli sociali.
Può essere definita reale la felicità nonostante la consapevolezza che essa derivi da un qualcosa di artificiale? Maria Schrader è molto abile e mai troppo banale nel dirigere dialoghi nella penombra o in piena luce, nell’alternanza dei duelli e degli scontri dialettici tra Alma e Tom, giocando su incroci ed inversioni delle due specie sotto il tetto: l’algida e laccata corazza di infallibile calcolatore e uomo perfetto, programmato al millimetro, che riveste Tom si apre poco a poco ad includere reazioni e dolori umani (fino a dare forma e concretezza a un falso ricordo di un amore infantile vagheggiato da Alma). Mentre la bravissima Maren Eggert, volto da diva del cinema muto, con la sua durezza di lineamenti teutonici e la sua dolcezza istintiva, nella freddezza guardinga e spigolosa della sua interpretazione distaccata – che incarna la somatizzazione di un profondo trauma – sembra essere il vero robot che deve sciogliere il suo involucro e riabbracciare calore e sensibilità.
Nell’approfondirsi del rapporto con Tom, Alma fa così la stessa (ri)scoperta della dimensione umana, espressiva e creativa che il suo lavoro al museo tenta di portare alla luce nelle antiche scritture: attestando la presenza, presso le civiltà premoderne, delle invenzioni linguistiche e delle metafore poetiche al puro servizio del sentimento, al solo scopo di gioirne e goderne in sé, oltre i codici ufficiali e la ratio impersonale delle tavole marmoree. Una traduzione di segni emotivi, in un parallelo tra il passato arcaico da decifrare e un presente altrettanto illeggibile, che sembra ricalcare il rapporto tra il Mito e la sua attualizzazione in Undine (2020) di Christian Petzold: altra recente favola romantica sui generis del cinema europeo, che come I’m Your Man segue il percorso esistenziale della protagonista femminile (là una guida turistica, qui un’archeologa) tra una mutevole geografia berlinese (là il Märkisches Museum tra plastici architettonici e planimetrie, qui statue e reperti del Pergamon) in bilico tra natura e cultura, razionalismo scientifico e passioni disordinate, verità interiore e falsi idoli della tecnica.
Tra una bella sequenza in notturna nelle sale del Pergamonmuseum a luci spente, e qualche veniale sbandamento (la stucchevole parentesi idilliaca con Tom attorniato dai cervi nel bosco, e la corsa a piedi nudi sull’erba), la Schrader compone un’intelligente ipotesi di bromance come riscoperta del sé e delle proprie potenzialità affettive, un vulnerabile melodramma da camera doppia sussurrato in toni lievi ed ipnotici che, se proprio non rivoluziona il discorso sui corpi artificiali del cinema, riuscirà almeno a riparare i pezzi di qualche cuore malandato, senza bisogno di troppi algoritmi e ricambi meccanici.
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