È uscito da pochi giorni, in alcuni cinema selezionati, il nuovo film firmato da Jane Campion, Il potere del cane, la prima opera della regista neozelandese dal 2009, anno in cui uscì Bright Star. Il film, tratto da un romanzo di Thomas Savage e il cui nome deriva da un salmo biblico, è stato presentato in anteprima alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed è stato premiato con il Leone d’Argento per la regia. Il film verrà distribuito su Netflix dal primo dicembre.
L’azione si svolge nel 1925, in Montana. I due fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons) si occupano del ranch di famiglia. Il primo, uomo rude, crudele ma anche molto intelligente, bada agli aspetti più pratici, mentre il secondo si dedica all’organizzazione ed è succube degli attacchi del fratello. Gli equilibri tra i due vengono sconvolti quando George si sposa con Rose Gordon (Kirsten Dunst), una vedova che viene a vivere nel ranch, raggiunta poi dal figlio Peter (Kodi Smit-McPhee). Phil cerca in tutti i modi di infastidire la donna, finché non iniziano ad emergere segreti e tensioni.
Due parole possono essere usate per descrivere questo film: decostruzione e sovversione.
La decostruzione messa in atto dalla Campion, sulla scia dei western revisionisti di fine anni 60, è già evidente nelle sue scelte extra diegetiche. Infatti, pur essendo il western “un’espressione della coscienza nazionale americana” (per citare Horizons West di Jim Kitses) il film è stato girato in Nuova Zelanda, non in America. Inoltre, esso ha al proprio centro un attore inglese (Cumberbatch) che pure si fa portatore dei caratteri fisici e comportamentali che troviamo nei cowboy di John Ford.
Il modello comportamentale di Phil è decisamente anacronistico. Durante il film, infatti, vediamo una ferrovia, simbolo in antecedenti illustri come C’era una volta il West di progresso. Il “Selvaggio West”, ormai, è morto. Phil vive in un eterno passato che si manifesta soprattutto attraverso continui riferimenti a Bronco Henry, un vecchio cowboy che gli ha fatto da mentore e la cui figura si concretizza solo attraverso la presenza della sua vecchia sella, tenuta come una reliquia.
Il mondo di Phil e dei suoi compagni è brutale e animalesco, come reso evidente da alcune scene particolarmente cruente (prima su tutte quella della castrazione dei tori, eseguita dal protagonista a mani nude). È un mondo brullo, rappresentato attraverso riprese ambientali spettacolari in cui la figura umana è inglobata e schiacciata dalla natura.
Il paragone con I segreti di Brokeback Mountain è stato fatto sia da critica che da pubblico: gli spazi immensi, le mandrie al pascolo e le riprese panoramiche sono una costante dei due lungometraggi. Ma dove i colori nella pellicola di Ang Lee erano vibranti e accesi, ne Il potere del cane dominano i marroni, i gialli e le tonalità spente, dando all’intero film una gradazione molto più fredda.
In un mondo di uomini, le vittime sono le donne, che per la prima volta in un film della Campion passano in secondo piano, con l’eccezione di Rose. Uno dei temi principali della pellicola è proprio quello del suo isolamento. L’effetto di oppressione che prova è espresso abilmente non solo dall’interpretazione della Dunst, ma anche dalla regia, che la riprende spesso dall’alto e inquadra invece il cognato dal basso. Alla riuscita di queste scene contribuisce anche il lavoro sul sonoro. Nelle scene di silenzio, infatti, ricorrono suoni che segnano la sua persecuzione: il rumore dei passi di Phil, il suo fischiettare, lo sbattere delle porte di casa… La colonna sonora, invece, composta da Jonny Greenwood, contiene principalmente pezzi per strumenti a corda e\o pianoforte, utili ad incarnare lo scontro silenzioso che si tiene tra il protagonista e la donna (nel film i due suonano rispettivamente un banjo e un piano a coda). In aggiunta, i brani che compongono la score servono a dare il tono a scene all’apparenza “innocenti” che rivelano però una tensione sotterranea.
La seconda costante attorno a cui verte questa pellicola è la sovversione delle aspettative del pubblico. I personaggi che ci vengono presentati sembrano già destinati a ricadere in un determinato stereotipo e a seguire un percorso predestinato, ma il film ci toglie il tappeto da sotto i piedi diverse volte. Di certo il personaggio più “inaspettato” è quello dell’efebico Peter, una figura totalmente altra rispetto agli uomini nel ranch già solo nell’aspetto fisico. Tuttavia, col procedere della pellicola, egli diventa il simbolo di un nuovo mondo che viene a spazzar via il vecchio, della scienza che si scontra con la natura (rappresentata da Phil).
Anche la scelta di Cumberbatch nel ruolo del protagonista è interessante perché ribalta completamente le aspettative del pubblico abituato a vederlo recitare in ruoli di ben altro tenore. Infatti Phil è un personaggio sì carismatico ed apprezzabile nel suo know how, ma è anche manipolatore, non curato, l’emblema della mascolinità tossica. Si crea così uno scarto che, accompagnato a scene che ce lo mostrano in momenti di vulnerabilità e alle informazioni che emergono sul suo passato, ci spingono sia ad essere critici nei suoi confronti sia a provare una certa empatia. In alcune occasioni l’atteggiamento di Cumberbatch e la sua fisicità non risultano del tutto convincenti nel ruolo del ranchero crudele. Questa interpretazione risulta nonostante tutto appropriata visto e considerato che, a modo suo, lo stesso Phil si è autoimposto un ruolo.
Durante il corso della vicenda riceviamo pennellate dei personaggi che alla fine riescono a darci un quadro completo della storia a cui abbiamo assistito. Quindi, il pregio maggiore della pellicola è lo svelarsi del mistero che vi è alla base: al pubblico vengono dati tutti i pezzi per decifrare il puzzle delle motivazioni dei protagonisti. Questo, inizialmente, può provocare confusione, ma la vicenda si ricompone alla fine in maniera soddisfacente e rende molto più chiare diverse sequenze. Una seconda visione è comunque consigliata per apprezzare a pieno la cura con cui è stata costruita la storia e i “semi” lasciati dalla regista.
Questa impostazione tuttavia relega in secondo piano alcune figure fondamentali della storia. Ciò anche a causa dello spostamento di focus che avviene durante tutto il film: se all’inizio ci si concentra su Phil e George, fratelli diversi, intorno alla metà abbiamo la guerra fredda tra Phil e Rose, per poi arrivare alla fine all’incontro\scontro tra Phil e Peter. Phil guadagna in profondità, essendo sempre al centro di questi rapporti, ma gli altri personaggi vengono a tratti dimenticati e lasciati sullo sfondo. Quello che più soffre di questo trattamento è George, che certo non beneficia dell’interpretazione di Plemons che pur essendo buona è la più debole del cast principale.
Altra debolezza del film è il fatto che la concentrazione parossistica sul protagonista negativo e la presenza di scene ricche di silenzi e pause possano rendere l’esperienza di visione gravosa. Inoltre la divisione in 5 capitoli, che corrisponde pressappoco a quella del libro di Savage, risulta abbastanza superflua nel passaggio dalla carta al grande schermo.
Nonostante ciò, Il potere del cane è un’opera ricca di spunti tematici, con interpretazioni per lo più forti, una regia immacolata e una sceneggiatura che prende il proprio tempo per scoprire le proprie carte e raccontare una storia oggi più moderna che mai.
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